Almigdad

A oggi sono sette giorni che Almigdad non c’è più. Una settimana. Troppo poco per realizzare pienamente che il tuo migliore amico in Yemen, ormai assurto al ruolo di fratello, colui che ti ha protetto sempre da ogni pericolo, è morto.

foto e testo di Laura Silvia Battaglia

Morto in una guerra ingiusta, assurda e dimenticata dai media. Morto per ostinazione e rischio. Morto perché faceva il nostro mestiere e cercava, per stemperare la rabbia e la paura, di mettere in luce qualche verità.

Almigdad Mojalli, giornalista yemenita locale, una formazione da insegnante di inglese e poi una vita passata a praticare il giornalismo su Yemen Observer, prima di approdare a una carriera consolidata come fixer locale per colleghi stranieri e per il network umanitario Irin, è morto sulla strada tra Sanaa e Yarif, colpito, secondo le testimonianza di Bahir al-Sharabi, il collega cameraman che era con lui, illeso ma in stato di shock, da una bomba sotto un attacco aereo saudita.

Di questa morte tragica, che probabilmente si sarebbe potuta anche evitare se l’ospedale dove è arrivato già morto fosse stato più vicino ed esistessero reali soccorsi nel Paese, non se ne deve fare un manifesto politico se non una bandiera per il rispetto del lavoro dei giornalisti in guerra.

Da più parti, nei media locali, la morte di Mojalli è stata utilizzata per aggiungere un ulteriore tassello alle violazioni inaccettabili che il GCC sta perpetrando sul Paese, in nome della smilitarizzazione, compiuta tramite bombardamenti, dei ribelli houti che tengono saldamente in mano il Nord.

Sì, è vero, Almigdad si trovava a Jarif (un villaggio a Est di Sanaa) per indagare sugli ultimi bombardamenti del GCC e per intervistare i testimoni. Il suo servizio sarebbe andato su Voice of America. Ma, ironia della sorte, Almigdad è morto per opera di uno degli attori in guerra di cui gli oppositori (i ribelli houti) favoleggiavano fosse una spia.

Nulla di più falso: la famiglia di Almigdad e lui stesso appartenevano a una tribù rispettata piena di quadri dell’esercito yemenita e con uno storico buon rapporto con l’ex dittatore Ali Abdullah Saleh che era, in linea d’aria, loro vicino di villaggio nell’area Nord di Sanaa. Ma Almigdad era un giornalista serio: aveva imparato il concetto di equidistanza, di investigazione e di onestà professionale e sapeva tenerlo distinto sia dalle simpatie che dalle ideologie e dai contatti di opportunità.

Così, quando gli houti conquistarono Sanaa con un colpo di Stato, non si preoccupò delle conseguenze investigando sui rapimenti che gli houti perpetravano e continuano a perpetrare nei confronti di maschi adolescenti o in età sotto la pubertà, drogati e costretti a presidiare i check point come bambini soldato o a rinforzare le fila in guerriglia. Lo pubblicò per il Telegraph e da lì iniziò il suo calvario: minacce ripetute a lui e alla famiglia, un paio di arresti intimidatori, un arresto più lungo, infine minacce di morte.

Lui stesso, il 19 agosto scorso, ci mandava una copia in arabo e inglese di una lettera aperta che ci chiedeva di pubblicare e che, per motivi di sicurezza, preferimmo girare al CPJ e al Rory Peck Trust, due straordinarie organizzazioni internazionali che provvedono alla protezione dei giornalisti in pericolo.

Qui Mojalli scriveva che Lwae al-Shami, neo ministro dell’Informazione per Ansar Allah, il partito degli houti, lo aveva ripetutamente minacciato. Mojalli puntava il dito sulla sua incompetenza (al-Shami è diplomato in informatica), rendendo nota la distribuzione di incarichi in ministeri e uffici pubblici da parte di Ansar Allah solo su base familistica dopo il colpo di Stato, sostituendo gli amministrativi aventi diritto.

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Almigdad fu riparato per qualche tempo in Giordania. Ma l’amore per la sua famiglia e il desiderio di sostenerla con guadagni adeguati e documentare il conflitto presero il sopravvento. Così ritornò in Yemen, felice, per abbracciare la morte.

Il collega Mojalli non è l’unica vittima della libertà di stampa che questo conflitto terribile – che ha già fatto 5500 morti e 26mila feriti solo tra i civili – conta. Ci sono attivisti e intellettuali sottoposti a ricatti e minacce che li pongono in una situazione di pericolo. Come Nabil Subay, intellettuale, giornalista e poeta, attivo durante la rivoluzione, espressione dei diritti della minoranza dei black skinned, che fu colpito alla testa e gambizzato da ignoti a Sanaa.

E a tutt’oggi non sappiamo ancora dove siano Hamdi al-Bokari, collega di Al Jazeera e Abdulaziz al-Sabri, corrispondente di al Masdar, insieme al loro autista Munair al-Subaie, rapiti nella città di Taiz e affondati in un buco nero del quale ogni newsroom porta il peso in un colpevole silenzio.

 

PS: i colleghi stranieri più vicini ad Almigdad hanno lanciato questo fundraising, per raccogliere fondi per l’educazione del figliolo di Almigdad, Abdulaziz , affinché non arrivi ai 21 anni senza un’educazione universitaria adeguata. Finora è stato raccolto il 60% del totale previsto di 10mila dollari. Saremmo lieti se, chi è sensibile alla causa, voglia contribuire secondo le sue possibilità. Quel che noi desideriamo è crescere Abdulaziz come un uomo responsabile e colto, esattamente come il padre avrebbe voluto.