Bellezza e passione degli ulivi del Salento

Alle polemiche su disseccamento, eradicazione, xylella fastidiosa e ambientalisti “tormentosi” gli ulivi salentini hanno risposto con un’annata munifica.

di Alessandro Macchia

foto iniziale @Marcella Invidia

Gli attori della disputa nel frattempo sono sempre più arroccati sulle proprie posizioni. Per gli uni colpevole è la xylella, batterio oltremodo dannoso che minaccerebbe, se non ostacolato con pantagruelici abbattimenti arborei, l’intero bacino olivicolo del Mezzogiorno. Per gli altri la xylella è solo la foglia di fico di una sciagura che, se non del doloso, ha quantomeno del colposo.

Ne abbiamo parlato con Marcella Invidia, attivista e ambientalista di “Forum Salute e Ambiente”, vicepresidente della “Rete Civica per la Tutela del Paesaggio e del Patrimonio Storico, Artistico e Archeologico” e membro della Consulta Ambientale del Comune di Trepuzzi.

 

La Procura di Lecce al momento dà ragione a quanti non riconoscono nel batterio della xylella fastidiosa un fattore determinante alla malattia degli ulivi. Cataldo Motta evidenzia che sono stati trovati ulivi soggetti a disseccamento ma esenti dal batterio e, viceversa, piante sane con tracce di xylella.
Parlare di xylella è limitativo e forviante. La xylella è semmai una concausa, accanto alla presenza di alcuni funghi xilofagi e a un lepidottero, il rodilegno giallo. Di “Complesso del Disseccamento Rapido dell’Olivo” (CoDiRo) avevano inizialmente parlato gli stessi ricercatori del CNR di Bari, salvo poi fare marcia indietro e indicare nella xylella la sola causa del disseccamento. Piuttosto, dobbiamo chiederci per quale motivo alberi che hanno resistito per secoli a fitopatologie e a cambiamenti climatici abbiano un sistema immunitario così debole da non reggere a questi attacchi. Il vero problema è da individuare nell’impoverimento progressivo delle sostanze organiche del terreno in seguito all’uso incontrollato di pesticidi e fitofarmaci. Le analisi di laboratorio della composizione del suolo ci dicono che è in atto, e in fase molto avanzata, un vero e proprio processo di desertificazione del Salento, visibile del resto anche a occhio nudo.

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Possiamo forse parlare di responsabilità diffuse? In effetti, si sa che i contadini impiegano diserbanti e insetticidi per tenere “pulita” l’area attorno all’albero. Raccogliere olive piene di terra comporta un costo aggiuntivo di molitura al frantoio. Una cosa che colpisce, per esempio, è la scomparsa del lombrico. È noto che i lombrichi sollevano molta terra, sicché gli agricoltori versano alla base dell’albero perfino il terribile Enovit Metil: un fungicida micidiale, che invero non è stato concepito per sterminare i lombrichi.
L’esempio del lombrico è paradigmatico. Si tratta di un tassello fondamentale della catena alimentare. Scava gallerie che arieggiano il terreno, accresce il valore organico del suolo. Che poi i lombrichi siano presi di mira di proposito o muoiano per conseguenza degli erbicidi, non cambia molto la sostanza delle cose. Per usare i pesticidi e i fitofarmaci, i contadini devono acquisire un patentino. Con tutto ciò, non si fanno scrupolo di dosaggi spropositati di sostanze chimiche pur di cancellare il più piccolo filo d’erba alla base della pianta. Vien da sé che la falda stessa si inquina. Il prof. Pietro Perrino (agronomo e genetista del CNR di Bari) ha dichiarato che la Puglia è ai primi posti in Italia per uso di concimi chimici e erbicidi. E la provincia di Lecce si distingue per eccessi. Naturalmente ne consegue che queste malsane pratiche alterano la biodiversità e compromettono l’intero ecosistema.

A tutto ciò bisogna aggiungere l’ipotesi avanzata dalla Procura di Lecce di misteriosi “campi sperimentali” apparentemente concepiti, nei primi anni del disseccamento, per combattere la cosiddetta “lebbra degli ulivi”.
Sembra che in quegli anni sia stato testato un “diserbante totale” della Monsanto: il Roundup Platinum, che viene assorbito dalle foglie e poi scende fino alle radici, inquina in maniera devastante il suolo e rende la pianta così debole da essere uccisa da patogeni contro cui è normalmente resistente. Stranamente gli alberi su cui sono state compiute queste sperimentazioni sono stati poi bruciati. Forse per non lasciare tracce?

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Possiamo attribuire le responsabilità di questo “perverso” corso dell’agricoltura alle generazioni più giovani?
L’olivicoltura tradizionale ha un costo. Per un prodotto di qualità bisogna utilizzare sostanze organiche e biologiche. Per produrre l’olio extravergine, poi, devi raccogliere le olive direttamente dall’albero, e ciò comporta un costo maggiore. Ora, il costo di mercato è così basso in Salento che taluni ritengono inevitabile che si debba sostituire l’olivicoltura tradizionale con quella intensiva. Usare l’ulivo spagnolo, a siepe, per esempio, è un vantaggio. Ha una produzione di olive molto rapida. La qualità dell’olio si riduce, ma aumenta la quantità. Or bene, molti proprietari terrieri pensano che sia accettabile sostituire i nostri alberi con queste altre varietà, ma così si cancellano secoli di storia. In ciò sono sostenuti dalle idee di alcuni docenti e ricercatori della facoltà di Agraria di Bari, come il professor Vito Nicola Savino o Angelo Godini, che non hanno mai nascosto di essere favorevoli alla revisioni delle leggi nazionali e regionali circa l’abbattimento degli stessi ulivi monumentali per far posto all’“olivicoltura superintensiva”.

A prescindere da questioni di mero profitto, sembra che molte altre varietà di ulivo siano immuni dalla xylella.
In effetti in molti convegni scientifici è stata ventilata l’ipotesi di rimpiazzare l’ulivo salentino, ossia l’Ogliarola e la Cellina, con il Leccino, alloctono, proveniente dalla Toscana, perché si presumerebbe immune dal batterio. Ma non esiste nessun dato scientifico certo. Sembra inoltre che alcuni ricercatori del CNR e dell’Università di Bari stiano brevettando biomolecole e nuovi prodotti chimici per impedire la diffusione del batterio e l’acquisizione dello stesso da parte dell’insetto vettore, la sputacchina. La ricerca in tal senso ci spaventa molto e porta a pensare che essa sia spinta da interessi economici di portata colossale. La richiesta di alcuni ricercatori al ministro Martina di aprire l’Italia a campi sperimentali di OGM terrorizza ancor più e vien da pensare che ci sia un nesso tra la “volontà” di distruggere l’olivicoltura tradizionale e queste sperimentazioni.

 

Si lamenta che alcuni proprietari terrieri abbiano accettato di abbattere i propri alberi per un piatto di lenticchie.
Al piatto di lenticchie si aggiunge il guadagno sulla vendita della legna. Ho visto enormi camion carichi di legna di ulivo diretti chissà dove. Ho visto proprietari che subito dopo la ricezione dell’atto di notifica di abbattimento dei propri ulivi si affrettavano a stringere accordi economici con gli addetti al taglio della legna. Poteva accadere tanto davanti a un ulivo giovane quanto davanti a un ulivo secolare, col frutto ancora sui rami, verde, rigoglioso, pieno di vita. Questi li chiamano “abbattimenti volontari”.

Ma la legna poi finisce.
Infatti! Ma in alcuni casi è stato veramente difficile far ragionare le persone. Talvolta erano mosse dalla stessa paura delle multe oppure dalle eventuali spese dei ricorsi al Tar. Abbiamo cercato in tutti i modi di persuaderle. Ci sono avvocati che si sono offerti di darci una mano a titolo gratuito. Ma abbiamo costituito anche un fondo cassa per le spese legali, organizzando spettacoli e coinvolgendo artisti locali. In altri casi ci siamo trovati ai limiti della tragedia greca antica. Una donna ha dato l’assenso per eradicare alberi di 400 o 500 anni di età, ma il padre in punto di morte gli aveva detto: «Mi raccomando, abbi cura di quegli ulivi.» La figlia invece ha firmato l’atto di eradicazione. Abbiamo tentato di convincerla a ricorrere al Tar, ma non v’è stato nulla da fare. Per fortuna la procura li ha bloccati in tempo. Sono meravigliosi, tra i più belli della zona.

L’immagine di uno scontro fra magistratura e scienza pare alimentata dagli stessi media. I giornali locali, soprattutto, tendono ad accreditare il quadro di un conflitto fra un mondo illuminato, quello dei ricercatori del CNR, e una realtà sociale descritta come oscurantista e retrograda, ossia quella dei contadini o di quanti, anche disinteressatamente, difendono gli ulivi. Colpiscono le parole di Silletti, che vi definisce con molta sufficienza “queste persone” o di altri che vi hanno definito “visionari”. In realtà, la stessa Procura si è avvalsa di periti di indiscussa esperienza. Vedi anche i risultati divergenti a cui è giunto, sulle responsabilità della xylella, l’Osservatorio Fitosanitario della Regione Toscana. C’è un tentativo programmatico di screditare la magistratura e l’inchiesta?
È vero, ci hanno definito visionari e complottisti. Le nostre erano solo stupide e insensate congetture. Ma le stesse “congetture” le ha avvalorate il Procuratore Cataldo Motta. Io penso che la magistratura sia sulla strada giusta e la dimostrazione indiretta è proprio in questo lavorio di discredito. È la paura che costringe a disinformare con questo accanimento. D’altra parte, oltre alla Procura di Lecce, anche il tribunale amministrativo del Lazio ha condannato questo scellerato piano emergenziale. Il Tar afferma quanto da noi sempre sostenuto, cioè la mancanza di una valutazione complessiva dell’impatto ambientale ed economico. Gli interventi erano drastici e pericolosi per la salute pubblica e in contrasto finanche con il fondamentale “principio di precauzione” contenuto nei trattati europei.

Esiste un criterio “scientifico” nel programma di eradicazione?
È molto dubbio. Nella zona di Trepuzzi, per creare una fascia di contenimento, avrebbero dovuto eradicarne ben tremila, se, come ho già detto, la magistratura non fosse intervenuta a sequestrare gli alberi. Del resto, ci è sembrata sempre illogica la scelta di abbatterne così tanti proprio in quell’area, laddove poi era prevista l’eradicazione di tanti altri ancora più a nord, nella fascia di San Pietro Vernotico. Ma poi, perché eradicare? In un’area alquanto circoscritta abbiamo riscontrato che alberi della stessa età presentavano esiti diversi: alcuni erano soggetti a disseccamento, altri (a distanza di soli quattro o cinque metri) erano verdissimi. Questo, a mio modo di vedere, dimostra che tutto dipende da come sono state condotte le pratiche agricole nel corso del tempo. Inoltre, i ricercatori baresi non ci spiegano altri strani fenomeni. Per esempio, come ha fatto il batterio a saltare dalla zona di Gallipoli e Alliste (dove è stato localizzato il primissimo focolaio) alle campagne del trepuzzino? Si tratta di un salto di 50 chilometri! Come mai la xylella si diffonde a macchia di leopardo anziché a macchia d’olio? E come mai la xylella, nella zona di Trepuzzi, viene individuata al primo campionamento? Stupisce non poco questo colpo di fortuna.

Varie documentazioni fotografiche amatoriali attestano l’abbandono in loco per intere settimane di alberi eradicati. Come si spiega?
O il piano Silletti era portato avanti in maniera alquanto superficiale oppure neanche i ricercatori sono convinti del pericolo del contagio, come ha lasciato trasparire di recente lo stesso Donato Boscia dell’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante del CNR.

Perché voi parlate di frode?
Anzitutto perché a tutt’oggi non esiste nessun dato scientifico che attesti che il vero responsabile del disseccamento sia la xylella. Ma anche per via delle modalità con cui è stata gestita l’emergenza. Si è trattato di un piano scellerato che ha messo a repentaglio non solo le piante, ma anche la salute pubblica. Sembrava di stare in guerra. Quando facevamo le ronde o i presidi, avevamo nausea e irritazione alle vie respiratorie. Dovevamo indossare una mascherina perché lì dove era necessario eradicare, si faceva un trattamento fitosanitario intensivo quarantotto ore prima dell’eradicazione e un altro ancora dopo. Ora, osservando anche da un’altra prospettiva, il batterio non è affatto pericoloso per il cittadino, il trattamento sanitario invece lo è. Per bonificare, si sottoponevano ettari ed ettari di terreno a pesanti trattamenti chimici, eseguiti da ditte specializzate ma a spese del proprietario: pena, una multa e il pagamento dell’intervento di irrorazione di fitofarmaci da parte dei dipendenti dell’Agenzia Regionale per le attività Irrigue e Forestali (ARIF), che intanto aveva già ricevuto cospicui finanziamenti (pari a 13 milioni di euro) per la gestione dell’emergenza. Comprende i danni ambientali che questo piano comportava? Aggiungo che i dati sulla mortalità per alcune neoplasie nella provincia di Lecce indicano una situazione allarmante. L’uso di pesticidi, quindi, va a gravare su una situazione d’insieme già fortemente compromessa, dovuta alle emissioni industriali tossiche della centrale a carbone di Cerano e del siderurgico di Taranto, ai rifiuti “tombati” e alle discariche abusive.

Quello che viene presentato come un fatto che può avere incidenza sull’economia, per voi è anche un problema etico. I ricercatori sostengono che in fondo si tratta di un numero circoscritto di qualche migliaio di ulivi da abbattere contro milioni di altri esemplari che in tal modo potrebbero essere salvati. Per voi invece tagliare un albero di 400 o 500 anni di età è un insulto alla memoria e alla bellezza del paesaggio e alla stessa “individualità” della pianta. La burocrazia europea non dovrebbe riflettere un po’ di più prima di pretendere di abbattere un ulivo secolare a colpi di piani straordinari?

L’Unione Europea è stata tratta in inganno da alcuni politici locali, che hanno ingigantito questo rischio con la trasmissione di dati impropri. Inizialmente l’Europa non ha affatto imposto di abbattere tutti gli alberi malati, ma di contenere la malattia, provando altre soluzioni. In principio si parlava di eradicazione del batterio, non delle piante. Poi tutto cambia e l’Europa arriva a dire che bisogna fare tabula rasa di tutte le piante entro i cento metri dall’albero malato. In ogni caso, per noi è certamente e soprattutto un problema etico. Noi non riusciamo a immaginare un Salento senza ulivi o una distesa di piante omologate, come dovrebbero essere le piantagioni della varietà di ulivo non autoctone prospettata. In quegli alberi vediamo lo spirito vivo dei nostri antenati. Vediamo i contadini di duecento o trecento anni fa, il rapporto d’amore che si stabiliva tra quegli uomini e la pianta. Quella pianta è così perché qualcuno l’ha plasmata, non solo il tempo ma anche il contadino. Vediamo il contadino che pregava per un buon raccolto, che si riparava dalla calura estiva sotto quelle fronde. Io scrivo Ulivo sempre con la maiuscola, come si fa con i nomi propri di persona, perché li vedo come esseri che vivono, piangono. Hanno respirato l’alito delle preghiere dei nostri antenati. In quei terribili giorni di ansia in cui si intuiva l’arrivo delle ruspe non potevo non osservarli grandi e indifesi. Secoli di storia cancellati in quindici minuti. È il pianto della Terra. Abbattere queste creature è un oltraggio alla memoria, alla storia, alla nostra stessa identità.

È davvero possibile essere amici di un albero? Ha senso abbracciarlo come si vede in tante fotografie che oramai testimoniano una pagina di lotta civile responsabile destinata a entrare nei libri di storia?
Ma come no! L’albero è il migliore amico. È indicibile il senso di sicurezza che ti offre la sua imponenza. Io ho la fortuna di vivere in una zona, quella di Trepuzzi, dove si ergono al cielo ulivi millenari. Lo stesso Comune vorrebbe ribattezzare quell’area, che si sviluppa a lato di un’arteria dell’antica Via Appia, come “Parco degli ulivi millenari”.

È plausibile o esagerato il confronto fatto da alcuni ambientalisti tra chi abbatte gli ulivi e i militanti dell’Isis, che radono a terra gli antichi monumenti?
Mi sembra un po’ eccessivo. Però, il tentativo di cancellare la memoria in questa barbara maniera è un atto terroristico e immotivato. Un albero vissuto per tanti secoli che viene ridotto a legna con tanta faciloneria è impensabile. L’ulivo per secoli è sopravvissuto a tante e tante patologie. Pensi che è l’unico albero capace di rigermogliare anche se bruciato. Io ho visto germogliare perfino le radici degli alberi eradicati. Infatti l’eradicazione non consta solo nel taglio del tronco. L’intervento completo prevede l’asportazione di ogni traccia anche ipogea di quell’ulivo. Non deve più esistere nessuna traccia della pianta. Tu vedi perciò enormi fosse che sembrano la “No Man’s Land” della Grande Guerra.

Solitamente si imputa agli Italiani di essere una nazione inerte e assuefatta al malaffare. L’impressione è invece che il “Popolo degli Ulivi” stia impartendo una grande lezione morale e civile. Per esempio, è stata una sfida coraggiosa quella di contravvenire al divieto di innesto di nuove piante di ulivi nel Salento, col seguito della diffusione di fotografie che mostravano il “malfattore” a fianco al corpo del reato. C’è chi fa resistenza e ama farsi riprendere con le armi in pugno e chi, come voi, osa farsi immortalare a lato di quell’ulivo che è da sempre simbolo di pace. Si può vincere una battaglia col paradosso? E spostare la lotta dal piano degli interessi economici al piano etico può diventare una strada vincente?
Eravamo molto agguerriti, però l’estremismo non ci interessa. Siamo scesi in campo mossi esclusivamente dall’amore per la nostra terra e dal nostro senso delle origini. Il salentino sente molto questo legame col passato. Siamo stati moralmente sostenuti anche da molti salentini che abitano al nord. Naturalmente ci sono stati momenti di sconforto perché ti sentivi contro lo Stato, ma alla fine abbiamo vinto le nostre paure. Abbiamo fatto tanti sacrifici, in termini economici e in termini affettivi. C’è chi lasciava il lavoro, chi la famiglia per le ronde e i presidi. Alcuni attivisti hanno dormito intere notti nei sacchi a pelo per fare da sentinella al territorio. Ci sono state assemblee a tutte le ore del giorno e perfino a notte fonda per capire come muoverci. Ci tenevamo in contatto con i social, ci coordinavamo attraverso i gruppi di whatsapp, creavamo gruppi di emergenza con scambio di informazioni in tempo reale per intervenire subito. A volte salivamo sugli alberi per proteggerli o fermavamo direttamente le ruspe. Altre volte, tuttavia, intervenivano i carabinieri e la forestale e potevamo fare ben poco. Ho visto molta gente piangere e disperarsi. Ne abbiamo risentito molto sul piano emotivo.

In alcuni casi gli alberi appena eradicati venivano da voi subito dopo reimpiantati.
È stato un gesto meraviglioso, generoso, commovente, quello di reimpiantare gli alberi. Forse il più bello in assoluto.

Lo scorso anno durante la Settimana Santa ha avuto corso anche il “Getsemani senza Ulivi” nei pressi del Capo di Leuca. Ogni Stazione corrispondeva a un ulivo malato. La Chiesa ha dimostrato nel merito grande sensibilità: tutte le diocesi salentine si sono raccolte attorno a queste meravigliose creature di Dio. Alla processione hanno partecipato circa cinquemila persone. È suggestivo immaginare che i grilli di Vittorio Bodini riprendessero a cantare: «Gesù, Gesù».
Per la domenica delle palme era stato persino ventilato il divieto di portare il ramoscello d’ulivo in chiesa per la benedizione. Poi è stato ridimensionato tutto, con la raccomandazione di non portarlo oltre il leccese. Nonostante ciò, un intero carico di ramoscelli salentini “sigillati” è stato recapitato in piazza San Pietro, a Roma, per la tradizionale benedizione. In ogni caso, per la nascita del “popolo degli ulivi” il momento decisivo è stato la bellissima manifestazione del 29 marzo 2015 in piazza Sant’Oronzo, a Lecce. Eravamo tantissimi, da tutta la Puglia. Ecco, quell’evento ha rappresentato una presa di coscienza identitaria e una presa di coraggio.

Si riuscirà a resistere alla colonizzazione delle multinazionali? Ormai il Salento sembra diventato l’eldorado degli speculatori. In fondo la lotta a favore degli ulivi è parallela a quella contro l’approdo del gasdotto sulla meravigliosa costa di San Foca. Le ragioni profonde non sono diverse.
Nel cassetto ci sono molti progetti scellerati. L’ulivo è tutelato dalla legge regionale. Può essere espiantato solo per opere di pubblica utilità, ma con obbligo di reimpianto. Naturalmente l’ulivo è una palla al piede per gli speculatori. E la xylella è giunta come una manna dal cielo. Si aggiunga che noi salentini abbiamo vissuto per tanto tempo in uno stato di torpore, come se fossimo al sicuro da tutto. Eppure bisognerebbe stare in guardia, perché nella storia abbiamo subito le nostre belle invasioni! Ma credo che tutto ciò abbia risvegliato le coscienze. Non basta l’attivismo fisico. Serve anche quello mentale.

Intorno al passato Bodini scriveva: «L’amore era una lettera trovata nel tronco di un olivo». Quante lettere d’amore hanno recapitato gli ulivi salentini?

Io credo che in questa brutta storia i destinatari delle lettere d’amore siano stati gli ulivi stessi. Noi eravamo presenti fisicamente nelle campagne del disastro, ma attraverso i social percepivamo un amore, un sostegno corale che era rivolto anzitutto agli ulivi e solo in secondo luogo anche a noi. Con buona pace del principe di Metternich, neppure il Salento è semplicemente un’espressione geografica. Il Salento è un’espressione poetica. E per difenderla, noi salentini siamo ancora pronti a combattere.