Il grande futuro: intervista a Giuseppe Catozzella

Nel 2012 lo scrittore Giuseppe Catozzella (che all’epoca aveva già pubblicato, tra gli altri, il bel libro sulla ‘ndrangheta a Milano, Alveare) si trovava in Kenya, nell’arcipelago di Lamu, a inseguire quella che lui definisce la sua ossessione: la guerra, la pulsione umana verso la violenza.

di Gabriella Grasso

Aveva saputo che in quel luogo di confine tra Kenya e Somalia esistevano dei campi di addestramento di Al Shabaab ed era riuscito a entrare in contatto con Alì, un ragazzo che in quei campi c’era stato ed era disposto a parlarne. Catozzella, che costruisce i suoi romanzi impastando letteratura e realtà, lo aveva incontrato e aveva passato con lui tre settimane. Stava per rientrare in Italia quando, una mattina, ha sentito alla tv un commento alla vittoria dell’atleta anglosomalo Mo Farah alle Olimpiadi di Londra. Il senso era: siamo felici per Mo, ma non dimentichiamo un’altra atleta somala, Samia Yusuf Omar, morta mentre cercava di raggiungere l’Italia. Venuto a conoscenza della storia di Samia, Catozzella si è reso subito conto che era potentissima e che qualcuno la doveva raccontare. Ha deciso di farlo lui (qui un’intervista che gli avevo fatto per Corriere delle migrazioni). Ne è nato Non dirmi che hai paura, romanzo fortunatissimo che ha venduto 120.000 copie, venduto in oltre 40 paesi in tutto il mondo.

Così la storia di Alì (che nella finzione letteraria ha anche un altro nome, Amal) è rimasta a “riposare”. Fino ad oggi, quando è finalmente arrivata in libreria. Si intitola Il grande futuro (Feltrinelli, euro 16) ed è il percorso esistenziale di un ragazzino povero, che parte dai giochi d’infanzia all’ombra dei fondamentalisti, passa attraverso la spiritualità, approda alla guerra, per giungere infine a una scelta – coraggiosa e adulta – di libertà.

 

La prima parte del libro sembra contenere l’eredità di Non dirmi che hai paura. In entrambi i romanzi ci sono due giovani amici inseparabili, destinati a essere divisi dalla guerra; ci sono le loro piccole sfide quotidiane alle regole imposte dai fondamentalisti; c’è un tradimento importante che cambia i loro destini. È un’eredità inconscia, nel senso che nell’iniziare un nuovo racconto ti sei portato dietro le tracce di quello precedente? O è una scelta meditata, per accompagnare i tuoi lettori da un’opera all’altra mettendone in evidenza le similitudini?
«Non è affatto una scelta voluta, anzi: desideravo staccarmi dal mio libro precedente. Non mi ero nemmeno accorto di queste similitudini. Può darsi che, inconsapevolmente, avessi bisogno di indagare ancora un rapporto di amicizia rovinato da un tradimento. Qualcuno ha detto che tutte le grandi storie partono da un giuramento e da un tradimento. Io sono d’accordo. Ma qui c’è anche un altro elemento da considerare: in entrambi i casi le vicende che mi sono state affidate sono segnate da un tradimento. E sebbene in questo libro io abbia trasfigurato la realtà, cercando di farla diventare fiaba o leggenda, gli snodi fondamentali della narrazione sono veri e io ho sentito il dovere di restarvi fedele».

 

Com’è stato l’incontro con Alì, cosa ci puoi raccontare di lui?
«È stato sconvolgente. All’inizio dovevamo vederci una sola volta, poi lui si è aperto e ci siamo incontrati parecchie volte, durante tre settimane. Oggi Alì ha 29 anni e collabora con un’associazione di Nairobi che si occupa di tenere i bambini di strada lontani dalla guerra, evitando che vengano arruolati. Parlando con me ha corso dei rischi, ma era convinto: diceva che era importante fare capire ai giovani l’orrore della guerra. Alì è cresciuto negli slum di Nairobi: è lì, come nei villaggi, che gli Shabaab reclutano i ragazzini. La cosa che più mi ha colpito è che Alì è assolutamente consapevole che le esperienze vissute lo hanno marchiato per la vita, che non si libererà mai degli atti compiuti. Perché nei campi di addestramento ti fanno lavaggio del cervello, ti mettono in mano i fucili, ti mandano a sparare e tu all’inizio non ti rendi nemmeno conto di ciò che fai. Poi, man mano che diventi sempre più preciso, più bravo nelle azioni di guerra, acquisisci anche consapevolezza. A quel punto, però, non hai scelta: se vuoi vivere, devi uccidere. Alì è stato dentro un campo dai 20 ai 24: era giovane, ma non tra i più giovani».

 

Stupisce che una persona di quella età sia riuscito a uscirne.
«È proprio ciò che mi ha folgorato di questa storia: la luce che c’era in fondo, la forza che questo ragazzo ha trovato, attraverso l’amore, per scegliere. I giovani chiusi nei campi di addestramento vengono fatti sposare con delle ragazzine giovanissime, a volte anche cristiane, rapite nei villaggi. La sposa-bambina di Alì ha aperto dentro di lui una via sconosciuta, quella dell’amore. E così lui, come succede al personaggio del libro, a un certo punto non è stato più in grado di ammazzare. Non si è reso conto di quello che gli stava accadendo finché, all’improvviso, una mattina gli hanno chiesto di uccidere dei bimbi in una scuola cristiana e lui non ce l’ha fatta. Si è messo a piangere. Così come si è commosso nel ricordare l’episodio. Adesso è da un po’ che non ho notizie di Alì, ma vorrei tornare a Nairobi e incontrarlo».

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Il capitolo sulla ricerca spirituale che il protagonista compie dentro la Grande Moschea è scritto con grande autenticità. Al netto di quello che Alì possa averti raccontato, credo che solo chi si è avvicinato a quel percorso (che è lo stesso qualunque sia la via prescelta: islam, cristianesimo, buddismo…) possa parlarne in maniera così precisa. Cosa ci puoi dire a questo proposito?
«L’anima di questo romanzo è vera, ma il resto è letteratura. Non volevo scrivere la storia di uno shabaab, bensì tracciare una possibile parabola umana universale. E certamente nel capitolo sulla Grande Moschea ci sono dentro parti di me. La spiritualità mi interessa da sempre. Sono una persona irrequieta, che non riesce a prendere casa nelle cose e deve muoversi in continuazione: quindi anche la spiritualità cristiana, nella quale sono nato, non mi è mai bastata. Circa otto anni fa sono andato a incontrare il Dalai Lama a Dharamsala e ho fatto un percorso all’interno di quel tipo di buddismo. Poi mi sono avvicinato all’islam assistendo ai sermoni del venerdì di un imam di Milano e confrontandomi con lui. Non sono credente, ma sono molto attratto dalla mistica che c’è dietro le religioni: è lo strappo che ci porta via da quel poco che c’è qua, la pulsione che ci dà la forza. Se non ci fosse, la mattina non ci alzeremmo dal letto. E infatti nei momenti bui della vita, in noi non c’è traccia di spiritualità. Mi piacerebbe trasmettere al lettore che la mistica è uguale per tutte le religioni, perché le precede. L’islam non è un nemico, al contrario. L’islam, il cristianesimo, il buddismo, l’ebraismo, danno voce al richiamo che l’uomo sente verso qualcosa che va oltre lui».

 

Quindi da occidentale cresciuto con il cattolicesimo, cosa hai capito dell’islam?
«Innanzitutto che il fondamentalismo ne è una deviazione, tra i due non c’è legame. I fondamentalismi utilizzano la religione per i propri scopi. L’islam è una religione secolare, nel senso che è politica, per cui – soprattutto nei paesi fondamentalisti dove tra le due cose c’è coincidenza perfetta – è facile per qualcuno prendere dal Corano dei passi violenti e dire: questa è la parola di Dio. Tutti i testi sacri, inclusa la Bibbia, sono violenti perché sono arcaici, essenziali, e la violenza fa parte dell’uomo così come fa parte del divino. Poi magari, nella pagina successiva a quella che contiene delle parole violente, ne trovi altre che sono l’opposto, perché la parola di Dio è necessariamente contraddittoria, perché il Dio è il Tutto. Come dicevo, la mistica è il motore che ci spinge a essere altro e uno dei concetti più belli dell’islam è proprio quello dello sforzo, il jihad. Noi occidentali lo confondiamo con la guerra, ma il jihad inteso come guerra è una deviazione. Si tratta, invece, dello sforzo per uscire da noi stessi, il sogno, l’aspirazione, la ricerca della felicità. Un altro concetto molto bello è quello del “cammino che porta alla fonte”: si chiama sharia. Nell’islam si fa una professione di fede che si chiama shahada (parola che deriva da sharia), che implica un’idea che non trovo nella mistica cristiana: la strada che devi compiere è tua e solo tua. Puoi chiedere sostegno alla Ummah, la comunità, ma il percorso lo fai tu da solo attraverso il jihad, lo sforzo personale. Soltanto così, a un certo punto della tua vita, arriverai a vedere il tuo cammino che porta alla fonte. Questi due concetti, uniti dal fatto che l’islam è una religione poco corrotta, rimasta molto forte, possono spiegare perché attragga molte persone».

 

Dopo aver compiuto il suo percorso spirituale, il protagonista del libro sceglie la guerra. Perché?
«Quella di Alì/Amal è la storia di un bimbo che diventa uomo attraverso la ricerca di se stesso, ma che a un certo punto si rende conto che nemmeno la religione gli basta. Prova con le armi. Nemmeno quelle gli sono sufficienti e allora arriva l’amore, che è ciò che forse lo farà acquietare. In un bellissimo articolo scritto a proposito del mio libro, Gabriele Salvatores paragona il percorso di Amal a quello di Siddharta e io condivido questa lettura. Ma uscendo dalla storia particolare del mio personaggio, il motivo per cui i fondamentalisti reclutano adepti dentro le moschee (e spesso non lo fanno armati, ma in veste di maestri) è perché lì si rifugiano ragazzini poveri e senza futuro, che trovano nella religione la loro salvezza».

 

Nel capitolo dedicato alla vita nei campi di addestramento dei fondamentalisti e alla guerra, si intuisce un grande lavoro di documentazione. In che cosa è consistito?
«La guerra me l’ha innanzitutto raccontata Alì che l’ha sperimentata sulla sua pelle. Poi l’ho vista con i miei occhi. Dopo la pubblicazione di Non dirmi che hai paura sono stato nominato Goodwill Ambassador dell’Unhcr Somalia. Sono quindi andato a Mogadiscio, ospite del campo Onu e lì ho partecipato con i soldati a missioni in città, specialmente nella zona calda intorno al parlamento. A 10 metri dal container dove dormivo c’era un cratere aperto da un missile che era stato lanciato di recente. Cinque giorni prima che arrivassi, gli Shabaab (che nel libro chiamo i Neri) si erano asserragliati fuori dal campo e avevano iniziato a sparare dentro: in 15 minuti i soldati Onu e quelli di African Union (che nel romanzo chiamo i Regolari) li avevano ammazzati tutti. Al mio arrivo, le azioni non erano ancora del tutto terminate. Dato che i soldati di African Union sono ospitati all’interno del campo Onu, ho parlato con alcuni di loro, soprattutto ugandesi, e mi sono fatto raccontare la guerra dal loro punto di vista. Ho anche avuto accesso a documentazione interna dell’Unchr e del ministero degli Interni somalo. C’è un ex capo di Shabaab, Atom, che ha iniziato da tempo a collaborare con il governo e ciò che racconta è materiale preziosissimo per capire il funzionamento dell’organizzazione. Ho infine letto dei documenti di Human Rights Watch, che sta facendo un grande lavoro di ricerca sui bambini soldato. In questo modo ho imparato molto sulle logiche di reclutamento e sulle azioni di guerra, inclusi gli stupri. La cosa pazzesca è che le logiche delle due forze contrapposte, gli Shabaab e l’African Union, sono le stesse, quindi se sei un ragazzino povero di un villaggio o di uno slum corri il rischio di essere reclutato indifferentemente da una parte come dall’altra. Entrambe offrono le stesse cose: un piccolo salario, dei vestiti, del cibo. In una parola: una vita. Ti fanno diventare uomo attraverso la guerra e tu ti senti importante, perché spari, ammazzi e finalmente credi in qualcosa».

 

Tu dici che una delle tue ossessioni è la violenza degli uomini e che reputi fortunati gli scrittori che hanno potuto (o possono) vedere e raccontare la guerra.
«Forse è una cosa abbastanza scandalosa da affermare, ma io trovo che la guerra sia fatta di materia incredibilmente incandescente, perché dentro c’è tutto: la guerra esaspera ogni cosa, e questo per uno scrittore attento al reale come me è incredibile. Scrivendo Il grande futuro ho capito che la violenza è radicata negli esseri umani e non c’è sforzo possibile che possa purificarla. Possiamo far finta che non sia così, ma ognuno di noi ce l’ha dentro. La possiamo sublimare, ma ci appartiene sin da quando nasciamo: anche il parto è un atto violento».

 

Nemmeno la spiritualità può essere una soluzione?
«Sì, ma è una strada per pochi, non è facile accedervi. È chiaro che un percorso di spiritualità ti astrae della violenza: ma anche da tutto il resto. È come quando prendi una medicina potente che elimina tutte le cellule che incontra: buone e cattive. La verità è che siamo animali, violenti, capaci di grande bene e di terribili mali. Nel regno animale capita spesso che le femmine uccidano i cuccioli delle altre, per eliminare ogni potenziale rivale. La violenza fa parte della natura: mi spingo a pensare che anche le piante e i minerali la esercitino, in qualche modo».

 

Quando uscì Non dirmi che hai paura (che pure ho molto amato) domandai a me stessa che diritto avesse uno scrittore italiano di prendere una storia che non gli apparteneva (né apparteneva al proprio Paese) e raccontarla, ottenendo un successo mondiale. Un amico scrittore mi disse la mia domanda non aveva senso: le storie non sono di nessuno, appartengono a tutti. Tu cosa ne pensi? E parlando di questo nuovo libro: senti una responsabilità rispetto ad Alì, oppure nel momento in cui uno scrittore fa propria una vicenda e la impasta con le proprie parole, la propria creatività, la propria anima, il legame con la realtà si perde?
«Rispetto al mio precedente libro, qui ho messo più distanza tra me e il protagonista perché volevo rendere questa storia il più universale possibile, farne quasi una leggenda. I miei riferimenti sono i testi sacri, la lingua del Corano, l’Orlando Furioso. Per il resto, penso che uno scrittore abbia il diritto di fare nelle proprie opere ciò che vuole, ha giurisdizione totale. Una storia è sua perché è lui che la sta scrivendo. Quella di Il grande futuro è la storia di Alì attraverso di me; come quella di Non dirmi che hai paura è la storia di Samia attraverso di me. È il paradosso della conoscenza: qualunque cosa tu conosca, la conosci attraverso di te. Le storie di per sé non esistono, è la narrazione che le fa esistere. Io sento forte la responsabilità nei confronti di chi mi affida il proprio vissuto e il peso morale di rimanervi fedele, però per uno scrittore questo può anche essere un ostacolo. Io cerco di stare sul filo. Ma la realtà non è storia. Solo il racconto – specialmente se fatto con la potenza della lingua letteraria – può renderla tale».