#8 – Dei danni con fantasia

di Juri Bomparola

Per fare certe cose ci vuole orecchio, confessiamolo.
Bisogna avere il pacco immerso, intinto dentro al secchio.
Lo devi avere tutto, anzi parecchio: per fare certe cose ci vuole orecchio.

Non ricordo quando ascoltai per la prima volta questo precetto, sdoganato presso il vasto pubblico come un qualsiasi tormentone estivo, ieri come oggi.
Mi rimase dentro con tutta la melodia, la costruzione armonica e la teatrale interpretazione di Jannacci.
Perché è lui che a Milano ha lasciato, tra le altre, questa “pirla” di saggezza.
La città della Madunina è troppo piccola per contenere tanta grandezza, e nemmeno l’Italia basterebbe.
Altro che tormentone estivo.

Mi concedo di pensare che “Waka-Waka” non abbia esattamente la stessa forza, indipendentemente dalle visualizzazioni su Youtube.
Dopo l’adolescenza ho riascoltato più volte queste considerazioni musicate e ne ho colto nuovi significati, alcuni più intensi e nitidi, altri più leggeri e meno definiti.

L’orecchio rappresenta la metafora del nostro sentire, un termine che linguisticamente va oltre il mero concetto riconducibile all’udito.

Si sente un po’ con tutto e in ogni modo, in Italia.
In English I hear, I listen to, I feel, I taste. In italiano io semplicemente sento.

Si può anche ascoltare, ma si tratta di un’altra faccenda.
In Italia sentire può bastare, a patto che si senta bene.

Chi fa il mio mestiere sa che può capitare di cadere in una delle tante buche disseminate sul percorso musicale.
“Non sentire bene” è una condizione omnicomprensiva, mica qualcosa da prendere alla leggera.
Proprio per questo spesso ci si trova sul palco immaginando di essere dall’altra parte della scena.
Ciò che sente il pubblico è il frutto di lavoro sullo strumento, di emozioni e sensazioni provate e del desiderio di comunicare con tutto il corpo, laddove sia necessario.
Non è così semplice essere assolutamente perfetti, ed è impossibile esserlo in ogni evenienza.
C’è sempre qualche senso che sfugge a chi suda sul palco: si conquista terreno da una parte e si abbandonano vettovaglie dall’altra.
Inconvenienti del mestiere di musicista-soldato.
Esiste al mondo qualche predestinato in grado di non cedere mai nulla al nemico ma si tratta, in genere, di grandi artisti più unici che rari, che rappresentano l’eccezione proverbiale a una regola più umana.

La realtà cruda è che non si può arrivare dappertutto a meno che non si possieda il gene del fenomeno.
Rimaniamo dall’altra parte della scena, dove si deve sentire bene.

Orecchio Assoluto
A volte capita di imbattersi in persone che il gene del fenomeno sembrerebbero averlo davvero, e sono più di quante si possa immaginare.
Sono lì per ascoltare e anche guardare e ti fissano. Pensano che sul palco dovrebbero starci loro al posto tuo, ci può stare.
Ne sono convinti e lo sono tanto da indurti nella tentazione di crederci tu stesso.
Quando salti come una pallina impazzita e sbagli una nota fai un favore a chi non vedeva l’ora di scuotere il capo, in segno di disapprovazione.
Li vedi eccome, li osservi e pensi: “scusate, ma stavo saltando!”.
“Eh no bello mio, non vale”.
Capriola sul palco, altra mezza nota sbagliata: teste che ruotano sul collo, da sinistra a destra e viceversa, senza posa.
“Non vai bene. Non vai bene!”
Corri da una parte all’altra del palco, concludendo il tragitto andando verso il microfono per iniziare un controcanto rappato degno del miglior Eminem e lì parte un suono goffo non richiesto.
Allora arrivi a sentire (sentire!) l’aria prodotta dallo scuotere del capo di tutti i Maestri presenti in sala. Una vera e propria tempesta.

Onorato del prestigioso privilegio penso che volevo solo fare il mio mestiere di rockstar, perbacco. Sono un po’ menestrello e un po’ giullare.

Questo faccio perché questo sono, lasciatemelo fare!
Mi capita di far danni sul palco, ma con fantasia.
Una volta tanto il pensiero polemico va concesso, altrimenti finirei col prendermi troppo sul serio.
Quando incontro situazioni di questo genere è semplice sorridere pensando a quante persone in realtà si siano divertite e abbiano apprezzato la parte musicale, pur con qualche sbavatura.
Il difetto che rende la perfezione pura bellezza è necessario.
Oppure si scuota il capo per il dentino storto di Laetitia Casta, chi ne ha il coraggio?

Sono passati parecchi anni dalla prima volta che ascoltai “Ci vuole Orecchio” di Jannacci. Da allora ho capito finalmente che il prodotto del mio lavoro non è diretto a chi ascolta solo con i timpani.
Per sentire bisogna usare tutti i sensi, sissignori: siamo in Italia e qui funziona così.
Ho smesso da tempo di occuparmi dei Maestri per dedicarmi alle persone che ammirano il lavoro che faccio, nella sua completezza.
Confesso però che aspetto di avere una serata libera per assistere finalmente ai capolavori di chi per hobby scuote il capo durante i concerti altrui.
Per il momento non è ancora successo e i fenomeni dello spartito continuano a presenziare sotto al palco. Avrò l’agognata occasione, ne sono certo.

Nel frattempo sono altrettanto sicuro che se per puro caso Jaco Pastorius dovesse resuscitare e trovarsi a un mio concerto, lui si farebbe qualche bicchierino (magari anche uno di troppo) e si godrebbe la serata cantando e saltando come un matto.
Sì, sono certo che Jaco si divertirebbe.

Un vero Maestro non ha bisogno di sottendere la propria superiorità: l’eccellenza non va detta ma dimostrata.

A fine concerto lo prenderei sottobraccio, gli offrirei una birra e brindando gli sussurrerei: “questa è l’ultima, poi ti porto a casa.”.
Solo così sarei certo di non farlo incontrare con qualche buttafuori irascibile, ché si sa, Jaco con quegli energumeni non ha mai stretto buoni rapporti.
La serata seguente (finalmente libera!) lo inviterei in un locale per bere ancora insieme.
C’è musica dal vivo e mi sbaglierò, ma quelle facce sul palchetto mi pare di averle già viste.
Suona il telefono.
“Scusa Jaco, è mia madre… Ciao Mà! Sono con Jaco in un pub a bere birra. No che non bevo troppo. No che non faccio tardi! Come? C’è casino? Eh sì, sono venuto a vedere dei fenomeni che suonano. Nooo Mà, stasera nessuna rockstar.”

Perché ci vuole orecchio, anche quando c’è poco da sentire.

Juri Bomparola Musicista professionista dal 2001, lavora nel mondo delle cover-band e si dedica all’osservazione della gente, perché di persone ne incontra parecchie. Gira l’Italia con un basso tra le mani; suona canta e rappa. Dal 2004 fa parte degli OxxxA, storica cover-band milanese che più di vent’anni or sono ha aperto la strada a chi sognava di fare della musica dal vivo in Italia una professione aperta a tutti.

La rubrica “Mamma sono una rockstar!” La mamma vorrebbe un figlio medico, imprenditore o ingegnere. A volte capita che la mamma non comprenda che un musicista cura se stesso e gli altri con la musica, è imprenditore della propria band ed è pure ingegnere del suono. Lo spieghiamo in questo spazio dedicato a piccoli e grandi musicisti e alle loro mamme. Un viaggio non solo on the road ma anche e soprattutto between the roadsIl musicista suona, ma tra un concerto e l’altro pensa e vive. Ispirato da Ungaretti un bassista racconta i suoi piccoli conflitti quotidiani.