dopo il sisma del ’68, «un fallimento che ha a che fare
con la storia della Sicilia dell’ultimo mezzo secolo»
testi e video di Tano Siracusa
Le due città, quella dei morti e quella dei vivi, hanno lo stesso nome e distano 20 chilometri. Gibellina vecchia è ormai una delle più estese opere d’arte esistenti al mondo, il cretto di Burri, l’impressionante calco del paese distrutto dal terremoto del ’68, con il suo intricato impianto viario e i blocchi di cemento imbiancato al posto delle case. Dall’altra parte della strada dissestata che conduce all’ingresso di Gibellina un casolare sventrato dal sisma e intenzionalmente non abbattuto.
Tutto intorno il silenzio della campagna. Le strade della città scomparsa sono vuote e il cemento del cretto si va sgretolando.
Anche Gibellina nuova è uno dei più estesi musei a cielo aperto di arte e architettura contemporanea. E anche la città nuova sembra disabitata, abbandonata, non solo per la sporcizia, le palme sconciate dal punteruolo e non rimosse, i rifiuti, le scatole di cartone che sembrano e non sono un’installazione artistica sul camminamento sopraelevato della più grande delle piazze di Purrini e Thermes; ma appare disertata perché nelle piazze, sui marciapiedi, negli spazi pedonalizzati di Gibellina nuova non si vede nessuno, non c’è nessuno. Eppure l’esperimento di Gibellina nuova ha schierato e diviso la cultura siciliana e internazionale fino a una ventina di anni fa, quando nel quadro della seconda repubblica e del dopo Mani pulite, è apparso evidente il fallimento dell’utopia di una città d’arte nel cuore della Sicilia.
Perché la storia di Gibellina, il suo fallimento, ha a che fare con la storia della Sicilia dell’ultimo mezzo secolo, con la densità dei suoi intrecci fra governo e opposizione, mafia e istituzioni, progetti di riscatto, utopie e malaffare, cultura e cemento.
Secondo Sergio Pantalena, architetto agrigentino che segue da quando studiava architettura a Palermo negli anni ’80 la storia di Gibellina, «la causa principale del fallimento è da ricercare nell’insolvenza degli strumenti di direzione istituzionale, declinati ora nelle forme della pianificazione urbanistica, ora della gestione assistenziale, in quanto dissimulazione del vero patto sociale di governo del territorio, ovvero dell’accordo ‘a tavolino’ tra politica e mafia».
Gli anni della ricostruzione erano quelli di una spesa pubblica fuori qualsiasi controllo, salvo quello di coloro che stavano attorno ‘al tavolino’ e che alimentava con il debito pubblico il mercato dei voti e del consenso, favorendo le larghe intese fra DC e PCI, fra clericali e massoni, vecchie e nuove generazioni, imprenditori e classi lavoratrici. È in quel contesto che prende forma il nucleo originario della nuova Gibellina, una forma urbanistica difficilmente decifrabile con i codici dell’abitare e del vivere di una popolazione di contadini siciliani, spostati a quindici chilometri dalle loro terre.
«L’impianto urbanistico di Gibellina Nuova – afferma Sergio Pantalena – fa riferimento al modello della new town di derivazione anglosassone, che postula una indifferenza nella disposizione gerarchica delle componenti costitutive, storicamente distinte. La realtà visiva corrispondente non espone variabili percettive, ad esempio, fra centro e periferia».
Un paese spaesante. Quando nel 1980 diventa sindaco di Gibellina Ludovico Corrao aveva 53 anni.
Era stato assessore nella giunta di Milazzo, a fianco di Danilo Dolci, avvocato anticonformista e di prestigio, infine senatore del PCI. La visionarietà è rara fra i siciliani, ma è quasi sempre d’eccezione, come nel caso di Corrao. Fra gli anni ’70 e la metà degli anni ’90 Corrao riesce a convocare a Gibellina i nomi più prestigiosi dell’arte e dell’architettura nazionali nel tentativo anche di ridefinire e ricucire l’impianto urbanistico della cittadina.
Vengono coinvolti docenti universitari delle facoltà di architettura di Camerino, Palermo e Roma, viene costruita la chiesa madre di Quaroni, con l’enorme sfera bianca in cemento, una cupola che recepisce le forme codificate dall’architettura islamica ma innestate sullo studio dei volumi contemporanei, viene realizzato il sistema delle piazze di Purini e Thermes, mentre si costruisce (e non si completa) un imponente spazio espositivo di Consagra che avrebbe di fatto collegato la chiesa e le piazze, viene realizzata la piazza del municipio di Samonà con la campanaria di Mendini, viene completato il Baglio Di Stefano dove dal 1981 si svolgono d’estate le Orestiadi. Il Museo d’Arte Contemporanea si arricchisce di circa duemila opere, mentre decine di opere di Consagra, di Rotella, Pomodoro, Schifano, si dispongono nello spazio urbano in parte anche rimodulandolo. Alcune delle opere più imponenti, come La montagna di sale di Paladino vengono originariamente realizzate per le scenografie delle rappresentazioni nell’ambito delle Orestiadi.
Un grande ‘laboratorio’, alimentato dalla visionarietà di Corrao mecenate-politico e dal flusso di danaro pubblico che nel suo duplice ruolo riesce ad orientare.
Oggi appare forse evidente una pianificazione poco approfondita dei vari interventi, il loro affiancarsi e disporsi in una successione che sembra offrirsi alla possibile fruizione estetica e negarsi all’uso sociale degli abitanti. Come nel caso magnifico palazzo vuoto (e purtroppo non completato) di Francesco Venezia. «Né in quegli anni – ricorda Sergio Pantalena – c’era spazio per le obiezioni e le critiche. Erano in campo i nomi più importanti dell’arte e dell’architettura italiana, le riviste di settore e l’ambiente accademico alimentavano un consenso spesso frutto di puro conformismo». Un conformismo che aveva come sponda il PCI, gli ultimi scampoli della sua egemonia culturale.
Oggi l’intera, vasta area che ha riorganizzato il profilo anche urbanistico di Gibellina appare come un palcoscenico vuoto, abbandonato, in disuso.
L’intera cittadina apparirebbe evacuata se non fosse per le imposte aperte delle finestre, i rifiuti per strada, i panni stesi, le automobili posteggiate. In un bar chiediamo ad una giovane signora seduta alla cassa come mai non si vede nessuno in giro. Ci pensa un po’, come se la domanda la cogliesse di sorpresa, poi risponde con un sorriso disarmato: «Non siamo abituati a uscire». I giovani vanno in qualche locale e se vogliono fare una passeggiata vanno a Castelvetrano. La stessa domanda l’aveva posta una ventina di anni fa l’architetto Pantalena ad una giovane di Gibellina. La risposta era stata che in quegli spazi «non si ritrovavano». Comprendere le ragioni profonde di questo fallimentare spaesamento non è facile. Accettarlo e rassegnarsi, come pare stia avvenendo, sembra comunque il segno di un ‘realismo’’ caratteristicamente siciliano, che spiega e si spiega anche con l’attuale fase di declino culturale dell’isola.
I tempi di Sciascia, Bufalino, d’Arrigo, Consolo sembrano lontanissimi. Neppure la breve esperienza di Sgarbi sindaco di Salemi, a sei chilometri da Gibellina, è servita a riaccendere i riflettori sulla città, dove la tragica scomparsa di Corrao sembra avere suggellato la fine di una una stagione comunque straordinaria. Rimangono Le Orestiadi che si svolgono ogni estate al Baglio di Stefano a custodirne, assieme alla memoria, il nucleo di un auspicabile quanto problematico rilancio.
L’immagine in apertura è una foto di Associazione Photofficine Onlus tratta da Flickr in CC.