Cile, un diario di viaggio

Sorprese e contraddizioni del Paese più lungo del mondo


di Laura Filios, foto di Matteo Zarbo

L’unica vera strada che collega gran parte dei 4300 km dello stato più lungo al mondo, il Cile, è la Panamericana. Su quella lingua d’asfalto si concentra la vita di un popolo abituato a camminare. Di certo non pensi che la gente la possa attraversare mentre camion e macchine sfrecciano a 120 chilometri all’ora. Né ti aspetti di vedere mamme con bambini sotto il sole cocente che attendono pazientemente l’autobus o il passaggio di qualche buon samaritano. Tantomeno immagini che la corsia d’emergenza possa essere usata come pista ciclabile. E invece…

Le aree di sosta attrezzate ci sono. I viaggiatori cileni, però, preferiscono fermarsi nei chioschi di lamiera che spuntano come funghi ai bordi della strada per rifocillarsi con i prodotti tipici che cambiano di zona in zona: fragole, formaggio, uva, tranne la bevanda tipica del mote con huesillos, che lo si trova sempre e comunque, ovunque. In strada, si mangia, si fanno affari, si chiacchiera, talvolta si dorme anche. Su quella unica e lunga strada soprattutto.

Santiago

Il nostro viaggio, però, è iniziato in aereo. A Santiago ci siamo rimasti una dozzina di ore, giusto il tempo di visitare La Moneda, il palazzo presidenziale dove è morto Salvador Allende, pranzare al mercato del pesce, apprezzare la vista delle Ande che circondano la città, caricare i polmoni di smog. La mattina dopo siamo partiti alla volta del Nord.

Deserto di Atacama

Ad attenderci 30° gradi all’ombra e un pullman per San Pedro de Atacama. La città di Calama sorge in mezzo a uno dei deserti più aridi della Terra. Nota agli storici per essere stata lo scenario della battaglia tra gli eserciti boliviano e cileno che segnò l’inizio della guerra del Pacifico, oggi deve la propria fama alla miniera a cielo aperto più grande del mondo, quella di Chuquicamata, dove si estrae il rame. L’aeroporto è un puntino in mezzo al nulla.

Da qualche anno è diventato l’hub di smistamento di migliaia di americani ed europei diretti a San Pedro. Noi eravamo tra quelli.

Questo paesino al confine con la Bolivia è un polo d’attrazione per una vasta gamma di turisti: dalle famiglie che vengono a svernare con figli al seguito in resort a 5 stelle ai backpacker che si accontentano di un umile giaciglio e di una birra in compagnia. La vie del paese ricordano quelle dei duelli tra cowboy nei film di Sergio Leone. Strade di terra rossa battute dal vento e deserte nelle ore in cui il sole cade a picco. Verso le quattro, quando la temperatura comincia ad essere di nuovo sopportabile, l’atmosfera cambia radicalmente e ci si ritrova buttati in una specie di villaggio hippie.

 
Nell’ascesa ai nostri primi 4000 metri verso la Laguna Altiplanica ci ha accompagnato Stefano, un ragazzo di origini italiane, che ha lavorato per un po’ di tempo in Liguria. Nel 2010 ha dovuto lasciare il Bel Paese per tornare a Concepción. Un terremoto di magnitudo 8.8, uno dei più terribili nella storia del Cile, aveva distrutto buona parte della città. Le poche cose rimaste in piedi, erano state prese d’assalto da bande di delinquenti e non solo. Stefano è stato chiamato dai genitori perché tornasse a fare la guardia con il fucile in spalla al negozio di famiglia. All’epoca aveva 22 anni. Per un anno non si è mosso dalla tienda. Poi si è trasferito a San Pedro, dove da un paio d’anni fa la guida turistica/autista/tuttofare. La “paga non è male”, ma i ritmi sono elevatissimi. Sul pulmino diretto al Salar di Atacama, ci ha confessato che lui in Italia si trovava benissimo e che il suo futuro lo immaginava là. In Cile – ha detto – ci sarebbero tante possibilità, ma il governo «non fa niente per il popolo perché è al servizio dei poteri forti«.

Questo è un Paese molto ricco e, la regione di Antofagasta, dove si trova San Pedro, ancor più delle altre perché è piena di miniere.

Oltre al rame, si estrae anche il litio, con cui si fabbricano, tra le altre cose, le batterie dei telefoni cellulari. Eppure, ci ha raccontato Stefano, qui la gente, se non lavora in miniera o nel turismo, fa la fame perché il governo cileno svende agli americani e ai cinesi le materie prime, senza fare nessun tipo di investimento per trasformarle in loco ed esportare il prodotto finito a un prezzo più alto. Abbiamo lasciato San Pedro un po’ perplessi, molto entusiasti, e con nelle gambe la voglia di scoprire luoghi altrettanto inimmaginabili quanto la Valle della Luna, il Gayser del Tatio, le Ande, il vulcano Licancabur, che il giorno che erutterà raderà al suolo l’intero paesino.

Patagonia cilena

Il volo che dal confine con la Bolivia ci ha portati nella città più a Sud del mondo, affacciata sullo Stretto di Magellano, è durato quasi quanto un intercontinentale. In effetti, atterrati a Punta Arenas, ci siamo ritrovati in un altro mondo. Ad aspettarci non c’era nessuno, se non un vento gelido che spazzava il parcheggio semi deserto dell’aeroporto. Anche se di stranieri, che si avventurano in queste lande patagoniche, ce ne sono, il turismo qui non ha ancora attecchito come a Ushuaia, in Argentina. Una volta constatato che tutti gli autobus erano pieni, l’unico mezzo per raggiungere Puerto Natales, nella provincia di Última Esperanza, era l’auto (a noleggio). In 200 km avremo incontrato non più di cinque macchine in entrambe le direzioni, diversi condor, centinaia di mucche e migliaia di pecore. Dopo due ore sulla Carretera del Fin del Mundo, un paio di cose ci sono parse chiare: in Patagonia ci sono molti più animali che essere umani e, se buchi, sei fregato (armati di pazienza).

Puerto Natales è un altro crocevia di estremi.

Montagne con picchi oltre i 3mila metri e un mare gelido alle loro pendici. Cittadina portuale e campo base per le escursioni al Parco Nazionale Torre del Paine, ormai indicizzato da Google come uno dei “posti più belli al mondo”. Una capatina al supermercato a far provviste per il pranzo ci ha messo di fronte a una nuova contraddizione: in uno dei punti più pescosi del Pacifico, le scatolette di pesce sugli scaffali provengono tutte dalla Cina. La svendita di materie prime del sottosuolo in Cile non è l’unico problema. La logica liberista è applicata alla lettera anche alle acque marine. La legge del 2013 sulla pesca ha affidato a quattro grandi industrie il controllo, per 20 anni, del 92 per cento delle risorse marittime del Paese, creando un evidente squilibrio non solo biologico, ma anche sociale.

 
Che il governo cileno stia agendo iniquamente a discapito della popolazione ce l’hanno confermano anche due ragazzi a cui abbiamo dato un passaggio da Puerto Natales fino all’ingresso del Parco del Paine. Entrambi hanno circa 35 anni e vengono dalle regioni centrali. Uno lavora come cameriere, l’altro è un musicista di strada. Questo è il loro escamotage per viaggiare a costo zero. Andare all’estero per i cileni, non è così immediato, a meno che non si faccia parte di una famiglia molto benestante. E non solo per i costi, ma anche per un problema di visti. Gli Stati confinanti, infatti, non sono in ottimi rapporti con il governo di Michelle Bachelet per questioni legate a dispute di confine (e di miniere) risalenti alla Guerra del Pacifico. Pare sia questa la ragione per cui Bolivia e Perù negano l’ingresso ai cileni, che hanno fatto di necessità virtù, eleggendo il proprio Paese a meta prediletta dei loro viaggi. Pablo e Martìn ci hanno spiegato che loro sanno perfettamente cosa non va in Cile e che vorrebbero poter fare qualcosa per cambiare il corso degli eventi, ma «hanno paura». «Di cosa?», abbiamo chiesto. «Di parlare, di agire». Martìn, che è un po’ più grande di Pablo, ha ancora fresco il ricordo dell’atmosfera che si respirava durante la dittatura di Pinochet. Noi abbiamo pensato: «Sono passati già (solo) 15 anni…».

Valparaiso

Per arrivare in macchina a Valparaiso da Puerto Montt (1100 chilometri circa) abbiamo impiegato una settimana. Le tappe del viaggio sono state: l’Isola di Chiloé per vedere le case colorate adagiate sulle palafitte e le chiese in legno Patrimonio dell’Unesco, assaggiare il curanto e scoprire che in ogni paese o città c’è un piano d’evacuazione in caso di tsunami; la Riserva biologica di Huilo Huilo, dove per due giorni abbiamo dormito in una casa sull’albero in piena foresta patagonica, accorgendoci, nostro malgrado, che ormai la notte ci dà meno fastidio il rumore del tram che il silenzio assoluto; Pichimelu, patria dei surfisti.

Il ritorno alla vita cittadina, dopo così tanta natura, è stato attutito dall’intimità che che ci hanno regalato le vie del centro di Valparaiso.

Sarà stata per l’ora (le due del pomeriggio) o perché era un giorno feriale, in ogni caso non erano molte le persone per strada, per lo più turisti che giravano a bocca aperta e con il naso all’insù a scrutare i murales che decorano le strade che hanno ispirato Pablo Neruda. Tra saliscendi e funicolari siamo capitati al vecchio carcere, in pieno centro città. La prigione degli oppositori politici del dittatore Pinochet è stata dismessa nel 1994. Dal 2013 è diventata un Parco Culturale – Patrimonio dell’Unesco – aperto a chiunque. L’intero progetto è stato difeso e successivamente gestito dagli stessi residenti e ogni giorno accoglie centinaia di studenti, artisti e gruppi culturali con seminari, eventi, corsi e spettacoli. Chissà perché ci è venuta in mente Milano e il suo San Vittore…

 
Il nostro viaggio è terminato in macchina. Siamo ritornati a Santiago per rimanerci una dozzina di ore, giusto il tempo di andare a visitare il Museo di Arte Precolombiana, pranzare nel quartiere universitario, camminare per le vie affollate di persone, molte con uno scopo ma ciascuna rispettosa dell’altra, e capire perché dei 17 milioni di abitanti che ha il Cile, circa 6 abitano nella capitale. La mattina dopo siamo partiti alla volta di Buenos Aires. Con un pensiero ben fisso in mente.

Quando si viaggia senza uno scopo, il filtro della mente è sgombro da domande che necessitano risposte, gli occhi vagano liberi e pronti a cogliere il tutto e il niente che ti si para davanti, si gode di un lusso che non è dato a tutti, che non sempre è consentito e che non ci si può permettere dovunque. Il Cile si è rivelata la meta ideale per questo tipo di divagazione, una vera e propria matrioska di sorprese naturali e umane, difficili da immaginare prima di metterci piede, ma anche un microcosmo ricco di contraddizioni, altrettanto difficili da immaginare prima di metterci piede.