So Contemporary / Ai Weiwei

L’artista cinese e il suo stare nella società, usando il web come museo a cielo aperto

di Giusi Affronti

Tate Modern, Londra – 11 Ottobre 2011. Un rumore croccante sotto le scarpe di chi calpesta una superficie color argento di mille metri quadri è la suggestione che emerge tra i muri di cemento armato della Turbine Hall dell’ex centrale elettrica inglese, oggi Tate Modern.

Se state immaginando un ready–made, siete assai lontani dalla verità. Sunflower Seeds è un’installazione monumentale dell’artista cinese di fama internazionale Ai Weiwei (艾未未): due anni di preparazione per lui e per milleseicento artigiani – tutti pagati con regolare stipendio – di Jingdezhen, città del sud della Cina tradizionalmente legata alla commercializzazione di porcellana.

Le donne, per lo più, tramandano da oltre mille anni, di generazione in generazione, questa pratica artigianale domestica. Sunflower Seeds pesa centocinquanta tonnellate ed è costituita da cento milioni di semi di girasole in porcellana, ognuno modellato e dipinto a mano con tale straordinaria minuzia che vien voglia di masticarne qualcuno.

Come un gigantesco giardino zen, dove ammonticchiare i grani come si fa con la sabbia sulla spiaggia, sollevando, però, polvere che risulta tossica se inalata a lungo.

Ai Weiwei, patriota militante e artista concettuale, nella sua installazione magnifica la memoria della manifattura cinese d’eccellenza in contrapposizione al fenomeno della produzione globalizzata e di massa “made in China”, intesa come dispersione dell’identità culturale del paese.

I semi, nutrimento povero dei milioni di cinesi delle campagne durante le carestie, sono il cameo del comunismo: nell’iconografia della Rivoluzione, infatti, la propaganda di regime raffigurava il popolo come un campo di girasoli, ruotati verso il sole–Mao Zedong ad adorarne la fulgida luce. Ogni grano, in Sunflower Seeds, è, invece, diverso dall’altro e, per questo, diviene metafora di una dimensione umana individuale e riscatto di una coscienza civile collettiva.

Moltiplicate, poi, la portata rivoluzionaria di questi cento milioni di cittadini cinesi per le potenzialità di espressione che da’ loro Internet: il campo di battaglia per una generazionale rivendicazione di diritti civili è così allestito, attraverso un’azione d’arte contemporanea. Perché essere artista, in un paese come la Cina, è esso stesso una scelta politica.

“Tutto è arte. Tutto è politica”, twitta Ai Weiwei. Nasce a Beijing, nel 1957, e cresce ai margini del deserto del Gobi poiché il padre, Ai Qing, è un poeta in esilio in campi di lavoro. Dalla parte del dissenso e della difesa della libertà d’espressione la famiglia Weiwei sta da generazioni. Per la sua opposizione al regime, nel 2011, Ai viene arrestato all’aereoporto di Pechino rimanendo in isolamento per ottantuno giorni. L’accusa, secondo i media ufficiali, è di evasione fiscale; il mondo dell’arte sa che sotto scacco è il suo attivismo politico.

Le azioni artistiche si amalgamano all’ingorda presenza di Ai Weiwei sui media globali, in parte censurata dal sistema di firewall ufficiale del Governo. Quella che veicola su Instagram è una narrazione compulsiva attraverso la pubblicazione, ogni giorno, di centinaia di fotografie.

Twitter è una trincea dalla quale scrivere di libertà, democrazia e poesia attraverso centoquaranta caratteri, boicottando l’autorità cinese che vieta qualsiasi flusso d’informazione. Sul suo Blog di sina.com, inaugurato nel 2006 e oggi piazza mondiale di riferimento per artisti, intellettuali e attivisti, pubblica link e news di politica, cultura e architettura, che spesso la stampa mainstream tace.

Il 28 maggio 2009 vi si legge la lista di oltre cinquemila nomi dei bambini morti nel terremoto del Sichuan, tragedia insabbiata dai media cinesi per non disturbare l’inaugurazione dei Giochi Olimpici. Il blog viene momentaneamente oscurato e Ai picchiato dalla polizia fino alla diagnosi di emorragia cerebrale.

Il web e i social network, per Weiwei, costituiscono la “scultura sociale” del XXI secolo, un taccuino globale su cui appuntare pensieri, schizzare disegni e denunciare la repressione del governo, costringendo la Cina a renderne conto sia alla sua cittadinanza sia alla comunità internazionale.

La capacità di guardare al mondo con saggezza non si traduce, però, in una mera militanza virtuale. Fuori dalla rete e dai device della tecnologia, è un artista dissidente in carne e ossa.

Weiwei People

Dopo quattro anni di restrizione agli spostamenti fuori dalla Cina e riacquistato il passaporto, da gennaio del 2016 Weiwei si trova sull’isola greca di Lesbo per documentare, attraverso i suoi canali social, l’arrivo di migliaia di migranti e costruire un memoriale per le vittime delle traversate in mare: “THE BORDER IS NOT IN LESBOS, IT REALLY IS IN OUR MINDS AND IN OUR HEARTS”, digita in un tweet che lascia in bocca il sapore della poesia.

Le azioni propagandistiche di Weiwei contro gli inasprimenti delle politiche europee si moltiplicano: in contrapposizione al noto orientamento anti-migranti del presidente ceco Milos Zeman, copre con teli termini le proprie sculture ambientali a Praga e cancella la mostra personale “Ruptures”, in programma alla Faurschou Foundation di Copenaghen, in seguito all’approvazione della legge danese che prevede la confisca dei beni dei migranti.

Il 30 gennaio circola viralmente su Internet una fotografia, scattata da un gruppo di giornalisti del settimanale “India Today”, che ritrae il corpulento artista cinese, sdraiato a pancia sotto e in riva al mare, nella stessa posizione del bambino siriano morto sulla spiaggia turca di Bodrum.

Non è questo il luogo per aprire il dibattito sui limiti del diritto di cronaca e per dire se l’immagine dovesse essere risparmiata dalla strumentalizzazione degli sciacalli dell’informazione; che ci piaccia o meno, quella tragica fotografia ce la siamo visti tutti nel piatto mentre mangiavamo grazie ai nostri smartphone e alla televisione.

L’azione di Weiwei non scimmiotta la morte di Aylan Kurdi, come è stato scritto urlando al cattivo gusto e alla pornografia della morte. Recentemente sei Stati, in Europa, hanno chiesto di sospendere il trattato di Schengen per due anni. Il fallimento è in mezzo al Mediterraneo e l’indifferenza ci rende complici. Si dice che la buona fotografia è quella che ti rovina la giornata; Ai Weiwei ci costringe, ancora una volta, quantomeno a una momentanea indignazione da “browsing” sul divano. Ché senza la libertà di espressione e di circolazione, esiste solo la barbarie. Giurerei di aver letto un post che diceva più o meno così, nel suo blog, qualche tempo fa.