Libero scambio e TPP: si apre una nuova fase

Il controverso accordo economico nella regione del Pacifico verso la ratifica

di Clara Capelli

Con la firma del Trans-Pacific Partnership (TPP) il 4 febbraio a Auckland, Nuova Zelanda, si apre la fase più delicata di questo controverso accordo economico regionale, al momento il più grande del mondo: quella della ratifica da parte dei dodici Paesi che l’hanno sottoscritto.

Stati Uniti, Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Peru, Singapore e Vietnam sono ora chiamati a pronunciarsi su questo trattato, negoziato nel corso di 7 anni senza che il testo fosse reso pubblico alle popolazioni interessate e la cui versione finale è stata conclusa il 5 ottobre scorso (potete visualizzarla a questo link).

Il TPP, insieme al Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) tra Stati Uniti e Unione Europea, è di fatto un’iniziativa statunitense per controbilanciare la potenza economica cinese, potenza che per altro si trova ora a far fronte a un rallentamento piuttosto importante della sua crescita, una crisi finanziaria e una serie di proteste di lavoratori e scioperi.

Il documento consta di 30 capitoli che disciplinano una varietà di tematiche: dai dazi e altre politiche commerciali ai servizi finanziari e le regole per l’attribuzione di commissioni pubbliche; dalle regolamentazioni su lavoro e ambiente alla risoluzione dei contenziosi.

Dati la recente pubblicazione del testo e la sua complessità, è al momento ancora piuttosto difficile orientarsi fra i suoi contenuti. Tuttavia, alcuni punti chiavi possono già essere individuati da una rapida analisi dei principali capitoli del trattato e dai temi che sono stati fatti oggetto di dibattito.

Innanzitutto il commercio. Il TPP prevede l’eliminazione di circa 18mila dazi doganali applicati nelle transazioni commerciali fra gli Stati firmatari, senza contare tutte quelle barriere di tipo non tariffario – quote, standard specifici, etc. – che regolamentano il flusso di merci e servizi.

E8tXGuC

Ampio spazio è inoltre dedicato alla disciplina – che si inserisce nel quadro di altri trattati internazionali in materia – della proprietà intellettuale, dei marchi e del copyright, con un trattamento speciale accordato al settore farmaceutico.

Per quanto riguarda la regolamentazione ambientale e del mercato del lavoro, diversi attori e associazioni hanno espresso dubbi sul fatto che questo accordo possa contribuire a un miglioramento degli standard e all’elaborazione di nuovi strumenti (nel caso dell’ambiente, rappresentanti di Greenpeace hanno sottolineato che il cambiamento climatico non viene mai menzionato, si parla invece di “transizione verso un’economia di basse emissioni di CO2”), con il rischio che in questi ambiti continuino a perpetrarsi le stesse condizioni di elevato inquinamento e sostanziale mancata applicazione delle tutele lavorative.

Una questione assai spinosa riguarda invece la risoluzione dei contenziosi tra Stati firmatari e gli investitori tramite procedura di arbitraggio internazionale, noto come Investor State Dispute Settlement (ISDS), un elemento molto delicato e contestato anche rispetto ai negoziati del TTIP. Si tratta di un meccanismo largamente utilizzato per gli investimenti internazionali, ma a preoccupare è la clausola inserita nel capitolo sugli investimenti del TPP, la quale prevede che gli investitori possano ricorrere ad arbitraggio internazionale qualora ritengano di avere subito “perdite o danni”.

In diversi Paesi coinvolti si sono già scatenate polemiche sulla ratifica del TPP, ma solo prossimamente sarà possibile esprimersi in merito. Nel frattempo, uno studio pubblicato a gennaio dal Peterson Institute for International Economics (PIIE), think tank di orientamento neoliberale, indicherebbe significativi e “ben distribuiti” vantaggi. Tuttavia la cautela è doverosa per diverse ragioni.

In primo luogo, questa analisi si rifà a un più ampio lavoro condotto dagli autori nel 2011 basato su una metodologia – quella dei modelli di equilibrio generale riferiti alla teoria neoclassica – che da oltre quindici anni viene messa in discussione in quanto poggia su assunzioni teoriche “favorevoli” al libero scambio che pertanto conducono per definizione a risultati in questo senso. Lo stesso dibattito si era per altro posto negli anni Novanta in occasione del NAFTA, il celebre trattato di libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico, capostipite di tutta una generazione di accordi regionali: molti modelli previdero all’epoca lo stesso tipo di mutui e importanti vantaggi, cosa che – vent’anni dopo – non è ancora stata osservata.

In secondo luogo, le stesse conclusioni dello studio del PIIE circonstanziano questi risultati positivi a una serie di vaghe condizioni facenti riferimento all’implementazione degli standard e delle liberalizzazioni negoziate dai promotori del TPP.

Infine, si dimentica un altro elemento largamente dibattuto in economia: per i Paesi in via di sviluppo – come molti dei firmatari – i dazi rappresentano una delle principali entrate per i budget statali, che non possono contare su un sistema di tassazione diretta dei redditi particolarmente articolato, né, data la diffusione di sacche di povertà e informalità economica, di una base imponibile importante.

Come nel caso del NAFTA, è plausibile ipotizzare che il TPP finirà per spianare la strada a delocalizzazioni e investimenti da parte di grandi corporations, contribuendo a segmentare ulteriormente la produzione mondiale tra Paesi caratterizzati da attività ad alto valore aggiunto e Paesi impegnati in operazioni di mera confezione e assemblaggio, un modello che penalizza significativamente i lavoratori meno qualificati a tutte le latitudini.

Anche per il TPP, le domande cruciali quando si parla di libero scambio rimangono sotto il tappeto, ma la Storia insegna che in questo tipo di accordi non ci sono solo vincitori. I perdenti magari non si vedono, eppure rischiano di essere parecchi.


(Questo articolo
rappresenta il punto di vista dell’autrice,
espresso a titolo personale)