Al cuore del reportage

Due volumi, in una serie di quattro, raccolgono grandi articoli di giornalismo narrativo

di Christian Elia

“New York e l’Afghanistan, mondi paralleli fatti di macerie, lavoro e dolore. Viaggiare dall’uno all’altro – trascorrendo dodici giorni a Ground Zero, tre mesi in Asia Centrale e in Afghanistan – vuol dire percorrere una successione di scenari popolati da tribù diverse ma ugualmente provate”.

C.J. Chivers, per il New York Times, 30 dicembre 2001, pezzo che gli varrà il Premio Pulitzer. Ed è davvero una lezione di giornalismo. Buon giornalismo, che al tempo della grande crisi, di contenuti prima che economica, tocca chiamare narrativo.

Chivers ha il coraggio di mostrare i suoi dubbi. Che, per principio, è il sale di questo mestiere. Emerso dalla coltre di polvere che ha soffocato Manhattan l’11 settembre, dove si ritrovò quasi per caso, l’ex marine passato al giornalismo parte dietro la rabbia, “suppor tour troops”, e tutto il resto.

Arrivato, però, si mette in gioco. E lo fa davvero, anche quando fa male. Trovando il suo dolore negli occhi degli afgani che muoiono senza sapere perché, nelle motivazioni di tanti americani partiti inseguendo colpevoli ‘ideali’ più che reali, che guardano smarriti una situazione molto lontana da quella che avevano immaginato.

Chivers alterna gli scenari, riuscendo a raccontare la confusione di quei giorni, dove alla catastrofe di New York si sommava la catastrofe dell’Afghanistan, sentendo solo l’empatia per le vittime e per una guerra che ha iniziato subito a sembrare inutile.

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Quello di Chivers è il reportage più interessante del libro, parte di una collana in quattro volumi, I maestri del giornalismo, a cura di Simone Barillari, per la minimumfax. New York, ore 8.45 – La tragedia delle Torri Gemelle raccontata dai Premi Pulitzer e Catastrofi – I disastri naturali raccontati dai grandi reporter. Per il primo, la prefazione di Andrea Purgatori, per il secondo quella di Federico Rampini.

Rispetto a quello sulle catastrofi, aspettando gli altri due, è un autentico capolavoro il reportage di Qian Gang, Il grande terremoto cinese, sul terremoto di Tangshan del 1979. Gang ci torna dieci anni, dopo, muovendosi tra le macerie fisiche e quelle spirituali di una tragedia che costò la vita a non meno di 250mila persone.

Gang raccoglie le testimonianze dei sopravvissuti, con una capacità di mettere in gioco la memoria quasi fisica del sisma, impressa nelle vite e nelle anime di coloro che hanno visto esplodere il mondo davanti ai loro occhi. I dettagli, anche infinitesimali, che si incastrano in un moto imperioso di natura. Il piccolo che diventa sempre più piccolo, di fronte all’immensamente grande.

Nello stesso volume vanno segnalate due chicche: un Jack London reporter in diretta dall’incendio che devastò San Francisco nel 1906 e John Hersey che, nel 1955, descrive i disastri del passaggio dell’uragano Diane su Winsted, in Cunneticut, Usa.
Mentre il grande scrittore sceglie l’approccio quasi da affresco di Bruegel, seguendo famiglie che tirano a mano quel che resta delle loro case sulle impervie salite cittadine, mentre soldati a cavallo puntano i fucili sui civili per far scavare fosse comuni, sullo sfondo di un conflitto di classe che svanisce di fronte al comune destino della tragedia, Hersey fa un’operazione narrativa opposta.

Sceglie di raccontare un grande dramma partendo dalle storie di una serie di case che si affacciano sulla medesima strada. E’ come se si sedesse, dove passa la tragedia, raccontandola dal punto di vista di 7, 8 personaggi.

Entrambe sono narrazioni potenti, approfondite, che si prendono lo spazio necessario per raccontare il troppo grande con il tempo dovuto. Storia e storie, uomini e donne, fatti e avvenimenti, memoria e testimonianza. Da leggere.