Tutte le vite che non abbiamo vissuto

Quello che immaginavamo, quello che sognavamo, ma non siamo diventati. Perché erano altri, magari, gli incontri previsti

di Nicolò Cesa

Tornano puntuali sul nostro cammino – come poche altre cose al mondo – le vite che non abbiamo vissuto. Ci bussano alla porta, non chiedono di nessuno, non fanno domande specifiche: ci guardano negli occhi e se ne vanno, sicure che ad un certo punto proveremo a raggiungerle, a correre alla stessa velocità di certi rimpianti o di certe amarezze.

Pur sapendo che non sarà possibile agganciarle, ma solo accostarsi ad esse; per guardarci riflessi nel loro specchio, per giocare al gioco infantile delle differenze.

Eppure tutti abbiamo dei rimpianti di felicità. Ada mi racconta di quando era ad un passo dal trasferimento in Italia, da Pisarzowice, un villaggio a 10 km da Bielsko-Biała, alta Slesia, Polonia sud-occidentale; Matteo di quando decise di iscriversi ad un corso di laurea troppo lontano dalla sua passione, la musica, per non rischiare di vedere il suo sogno polverizzarsi al fuoco lento della realtà; Martino di quando ha deciso di cambiare latitudini e longitudini al proprio amore. Non me lo racconta, ma lo so.

Se avessi agito in questo modo? Se avessi avuto più coraggio? Se, Se. Eppure non lo abbiamo fatto o meglio abbiamo fatto altro. Non siamo andati a vivere a Bora Bora, non abbiamo abbandonato le nostre piccole battaglie quotidiane, non ci siamo girati dall’altra parte. Anzi, lo abbiamo fatto solo per vedere che forma avesse il mondo da certe posizioni.

E ci siamo presi la responsabilità delle nostre scelte. Siamo quindi cresciuti. Non intendo anagraficamente, ma esistenzialmente. Senza la responsabilità non possiamo definirci – nemmeno sentirci – umani.

Eppure tutte le vite che non abbiamo vissuto ci fanno ancora male. Anche se davanti ad un foglio bianco cerchiamo le motivazioni giuste per convincerci che se abbiamo compiuto una determinata scelta – o una serie di scelte – una ragione doveva pur esserci. Quindi, è giusto così.

Se fossimo macchine agiremmo in base alla mera utilità. Quindi faremmo dei calcoli, ed opteremmo sempre per la scelta migliore, intesa come quella più utile. Quindi, che senso avrebbe guardarci indietro con nostalgia, con rammarico o con rimpianto? Guardandoci indietro vedremmo una serie di opportunità, di scelte, e noi che cogliamo quella più ovvia, quella più produttiva.

Non esisterebbe, però, la dolce malinconia che accompagna certe sigarette fumate dal vento, la nostalgia della sera raccontata dai poeti e le imprese di certi viaggiatori che usano il mondo per conoscere se stessi. Senza tutte le vite che non abbiamo vissuto un tramonto sarebbe semplicemente un evento atmosferico, una penna uno strumento, i piedi l’ultimo segmento dell’arto posteriore dei tetrapodi e la vita poco più di una “condizione di sistemi materiali caratterizzati da un alto grado di organizzazione e complessità, e di cui la cellula è considerata unità fondamentale” (Treccani).

Le vite che non abbiamo vissuto hanno invece il potere inaspettato e devastante di mescolare il significato al significante, di riscrivere le regole del mondo e di scavare solchi asimmetrici sui nostri volti. Ci rendono ciò che siamo attraverso un meccanismo che appare illogico, per cui siamo-ciò-che-innanzitutto-non-siamo-stati; o meglio, ciò che abbiamo deciso di non essere.

Senza le vite che non abbiamo vissuto saremmo altro, altrove, altrimenti, alieni – che infatti hanno la stessa radice etimologica. Non saremmo quello che siamo oggi e adesso. La mappa della nostra identità non avrebbe confini né continenti. Non saremmo proprio.

Eppure godiamo tutti nell’immergerci nelle acque calde e sulfuree del condizionale, nel tornare sulla scena dell’amore mancato, dell’errore commesso. E’ come se avessimo bisogno di sentirci altro, altrove, altrimenti. Alieni.

Ma poi capita che il migliore bistrot di Reykjavik lo trovi proprio mentre stai pensando ad una di quelle vite; ed in qualche modo quel caffè che ha il colore delle notti dei marinai, ti basta. Fai pace con l’invisibilità del destino cieco – quello del Witek di Kieślowski – ed in quel momento accade la felicità. Ti convinci che tutto sommato quelle vite hanno persino un senso positivo, che non sono cioè semplicemente generatrici di rimpianti, di rimorsi o un’occasione perduta: quelle vite muovono il mondo. Ci portano in luoghi sconosciuti e ci fanno sentire la necessità di riempire un foglio e di leggerne uno già riempito. Quelle vite sono il motore dell’arte.

Altrimenti perché Knut Hamsun avrebbe dovuto scrivere decine e decine di capolavori se gli fossero tornati tutti i conti con il proprio passato? Che bisogno avrebbe avuto? Perché Camus avrebbe dovuto raccontare di uno straniero in una spiaggia di Algeri, il Caravaggio dipingere certi soggetti e Ungaretti scrivere una poesia per unire indissolubilmente il concetto di amore con quello di casa, se a ognuno di questi artisti fosse bastata la vita che aveva e fosse in pace con tutte quelle che non aveva vissuto? Senza la malinconia che solo certe nostalgie sanno trasmettere, sarebbe mai nata Hallelujah?

Allora forse queste vite sono più che utili, pensavo; se fossimo delle calcolatrici, ci vorrebbe parecchio lavoro per trasformare questo concetto di utilità in un algoritmo.

Proprio grazie a queste vite invisibili, ipotetiche ed inesistenti riusciamo a creare – e a cogliere – l’arte del mondo e la disciplina della terra. E allora benvenuta sia la malinconia di Ada, il rimpianto di Matteo e il silenzio di Martino, anche se -ad oggi – è pressoché impossibile farglielo capire. Quel bistrot di Reykjavik, dopotutto, lo trovai solo per caso.