di Juri Bomparola
Apro la porta blindata del mio focolare.
Quattro mandate verso sinistra di una chiave lunga producono il suono pesante della schiusa di un ponte levatoio.
Ne sentite anche voi l’eco, se possedete una porta blindata.
Aspira tanta aria l’uscio quando si apre, quanta ne espira quando si richiude.
Altri quattro giri, sempre verso sinistra. Specularmente si cerca di conservare la propria casa.
Faccio un dietro-front spontaneo mentre estraggo la chiave dalla toppa.
Avanti-march! Compio due passi verso il vano dell’ascensore e lo chiamo premendo il pulsante.
Mi batte forte il cuore, mentre si divaricano le valvole di quel ventricolo d’acciaio.
Ci entro, come flusso sanguigno fatto uomo.
Arrivo a destinazione, piano terra.
M’incammino verso il luogo di un appuntamento importante.
Un bar come tanti altri, ma che un amico caro ha scelto per incontrarmi.
Vicino casa mia, per non scomodarmi troppo. Un luogo confortevole.
Guardo il posto, lo osservo da fuori. Poi entro.
È un posto da Campari col bianco, da dibattito sull’ultima giornata di Serie A.
Fingo di interessarmi alla Gazzetta poggiata sopra un tavolino e, dopo essermi seduto dico “aspetto un amico per ordinare”.
Pochi minuti dopo lui arriva. Mi alzo andandogli incontro, spalanco le braccia e sorrido felice.
“Ciao Beppe! Che piacere vederti, come stai?”.
“Io bene e tu? Hai una faccia… Non dormi mai?”
La poesia non l’abbandona nemmeno oggi. Vede tutto e lo mette anche in rima, stavolta.
Perché Beppe non è un tipo che ama il conforto della rima, ne sono consapevole.
La sua barba bianca mi infonde tranquillità mentre lui si toglie il baschetto che copre l’alopecia senile, infilandolo in una tasca della giacca.
È proprio così come lo ricordavo.
Lo invito a sedersi al tavolo con un semplice gesto della mano destra e così facendo mi accomodo anche io.
Beppe sorride e mi guarda, socchiude le palpebre che rendono i suoi occhi chiari ancora più piccoli, ma non meno luminosi.
Ordiniamo due bianchini, senza Campari.
“Come mai hai scelto di parlare di me, scrivendo di musica?” mi domanda. Il vecchio va dritto al sodo.
“Non l’ho deciso io. Sono inciampato nella tua poesia mentre pensavo di musica e ne scrivevo” rispondo.
“Perché accostarmi alla musica? Ho messo le dita su un pianoforte, una volta. È stato parecchio tempo fa. Non mi pare sia mai più successo.”
“La tua poesia non è forse musica, come tutta la poesia del mondo?”
Beppe si sporge verso di me, poggiando gli avambracci sul tavolino. Sorride di nuovo e mi guarda dritto in faccia. Siamo occhi negli occhi e accenna una smorfia tenera mentre sogghigna.
Scuote il capo dolcemente, in segno di educato dissenso.
“Juri caro” esordisce con voce appena roca e in tono dolce. Le due parole sono lunghe e lente, nonostante la brevità dell’enunciato. Sembra che canti anche quando prosegue: “posso credere che tu sia ingenuo, ma non così banale. Non tutta la poesia è musica. La mia è spesso rumore. Fracasso organico, significante e voluto, ma non per questo musica.”
Mi acciglio mentre ascolto queste parole e Beppe si ritrae facendosi scivolare all’indietro sulla sedia. Non smette di sorridere, mai. Mi guarda come un nonno fa con il nipote, anche se non potrei affermarlo con certezza. Non ho mai avuto un nonno che mi guardasse in età consapevole, ha abbandonato le spoglie mortali troppo presto.
“Beppe caro” lo incalzo facendogli il verso “credo di aver compreso ciò che intendi. Questa considerazione si potrebbe fare anche per la musica stessa, in effetti. Ciò non toglie che sei stato per me fonte di ispirazione. Il significato delle poesie è musica più della poetica stessa. Così come la musica può essere poesia più della musicalità.”
Il vecchio annuisce compiaciuto poi sposta lo sguardo verso il cameriere che sopraggiunto appoggia due bicchieri con lo stelo pieni di vino bianco.
Entrambi fissiamo il vetro trasparente, tacendo per qualche istante.
“Come sei diventato poeta?” gli domando a bruciapelo.
“E tu, come sei diventato musicista?” risponde.
Sono tentato di fargli notare che non si risponde a una domanda con un’altra, ma penso a quanto mi farebbe apparire ancor più banale agli occhi di un anziano signore, così brillante e pieno di esperienze. Rigetto quasi subito quel primo pensiero e ribatto.
“Semplicemente suonando. Forse lo ero anche prima di suonare, ma questo non posso saperlo. Probabilmente musicista ci sono nato.”
“Si nasce uomini. Qualcos’altro si diventa, senza smettere mai la condizione di essere umano. Spesso si fa una scelta, altre volte si risponde a necessità. Non credo che esista un talento innato specifico. L’essere umano trascende ogni sua creazione. Non sei d’accordo?”
Rifletto attentamente sulle sue parole e annuisco. Abbasso lo sguardo che cade nuovamente sulla Gazzetta dello Sport. Sghignazzo e ribatto: “in effetti verrebbe da chiedersi dove fossero e cosa facessero i talenti innati per il calcio nel Medioevo!”
Beppe scoppia in una risata che mi contagia e si protrae per qualche secondo.
“Vedi, ognuno nasce con le proprie inclinazioni che solo il Padreterno conosce prima. L’uomo non può che adattarsi ai propri tempi e utilizzare quei geni -perché di questi si tratta- per scopi che preferisce ad altri. Forse nel Medioevo tu saresti stato uno straordinario capitano di ventura o un fabbro eccellente, piuttosto che un menestrello.
Oggi potresti essere il migliore dei venditori di stoviglie porta a porta, così come un pittore dal talento riconosciuto oppure, semplicemente, un efficiente operaio di fabbrica. Non saprai mai quanto avresti potuto eccellere o fallire in altri ambiti.
Sei un musicista perché l’hai scelto tu e nessun altro. Io sono diventato poeta perché scrivevo poesie in trincea. Sarei stato poeta anche se nessuno oggi conoscesse il mio nome.
Prima di te, nella mia stessa poesia ci sono inciampato io. Cadendoci sopra non sai quanti proiettili ho evitato.”
“Perché hai scelto quasi sempre una poetica così scarna e fuori dagli schemi classici? Ti hanno sempre affibbiato l’etichetta dell’ermetico. Te la sei cercata?”
“Eh no, amico mio. Io ho scelto di fare il poeta. Come farlo, però, non lo decido io. Per quanto voglia barare, e non lo voglio, le poesie le scrivo come mi vengono. Eseguo gli ordini dei miei geni, per l’appunto. Io impongo loro ciò che voglio fare, ma sono loro a stabilire come lo farò. Non puoi andare oltre.
Io ho sempre visto la poesia dappertutto, perché il mondo ne è pieno. C’è poesia ovunque ti volti.
Lo stesso vale per la musica. Devi solo coglierla come si coglie un fiore di montagna.
Ci sono fiori anche in trincea, tra le pallottole che sibilano intorno come zanzare ammattite.”
Lo guardo, il Beppe. La sua voce mi commuove, ma non voglio mostrare questa mia fugace debolezza. Ho gli occhi lucidi e lui se ne accorge, ma tace.
Avrei ancora tante domande da porgli, ma il tempo corre e lui deve andare.
Io devo andare.
Continuiamo a tacere, abbassando gli occhi per guardare i calici ancora pieni di vino.
C’è stato troppo da dirsi per poter bere. Ora è il momento.
Quasi all’unisono ognuno prende il proprio bicchiere per lo stelo, stringendolo tra il pollice, l’indice e il medio della mano destra.
Li alziamo e sorridiamo, ancora, mentre li facciamo sbattere l’uno contro l’altro, neanche troppo delicatamente.
“Alla musica” dice Beppe.
“Alla poesia” dico io.
Il suono del vetro sottile riecheggia nelle nostre orecchie. È rumore e cacofonia che si traduce in musica e poesia.
Pochi sorsi senza più dire nulla.
Beppe si alza, saluta con un cenno il barista ed esce.
Giro il capo verso la vetrina e lo vedo allontanarsi lentamente. Si ferma ed estrae il basco dalla giacca. Lo accomoda sulla testa e alza lo sguardo al cielo, mentre mette le mani in tasca.
Riprende a camminare più alacremente verso chissà quale meta.
“Ciao Giuseppe.”
Sussurro appena. Ne sono certo, non lo sto pensando, lo sto dicendo.
“Grazie per la compagnia, prima o poi ci ritroveremo, come si ritrovano i vecchi amici. Salutami il nonno e digli che a mia madre un po’ ho mentito: non sono una rockstar.
Sono solo un uomo.”
Juri Bomparola Musicista professionista dal 2001, lavora nel mondo delle cover-band e si dedica all’osservazione della gente, perché di persone ne incontra parecchie. Gira l’Italia con un basso tra le mani; suona canta e rappa. Dal 2004 fa parte degli OxxxA, storica cover-band milanese che più di vent’anni or sono ha aperto la strada a chi sognava di fare della musica dal vivo in Italia una professione aperta a tutti.
La rubrica “Mamma sono una rockstar!” La mamma vorrebbe un figlio medico, imprenditore o ingegnere. A volte capita che la mamma non comprenda che un musicista cura se stesso e gli altri con la musica, è imprenditore della propria band ed è pure ingegnere del suono. Lo spieghiamo in questo spazio dedicato a piccoli e grandi musicisti e alle loro mamme. Un viaggio non solo on the road ma anche e soprattutto between the roads. Il musicista suona, ma tra un concerto e l’altro pensa e vive. Ispirato da Ungaretti un bassista racconta i suoi piccoli conflitti quotidiani.