Grecia: il frutto del Terzo programma di ‘salvataggio’

Le manifestazioni non hanno interessato solo la capitale, più o meno in tutto il Paese si sono avute contestazioni, strade bloccate e barricate.

di Clara Capelli

 

“Se questi politici continuano a spingerci verso il baratro, se continuano a non trattarci come esseri umani, verremo ad Atene e li bruceremo tutti”. Bentornati in Grecia, che dalla fine di gennaio è attraversata da accese proteste. Operai, pescatori, allevatori, agricoltori, pensionati: tutti sono scesi in strada per manifestare contro il governo guidato dal leader di Syriza Alexis Tsipras in coalizione con il partito di centro-destra ANEL. A infiammare l’indignazione dei greci è, non dovrebbe sorprendere, il terzo programma di “aiuti” definito nel luglio 2015.

Dall’inizio dell’anno le proteste sono montate fino a culminare il 12 febbraio – ironicamente il giorno dopo la riunione dei Ministri delle Finanze dell’eurozona, espressisi positivamente rispetto ai “risultati ottenuti” dalla Grecia – quando circa 800 agricoltori di Creta sono sbarcati ad Atene e hanno preso di mira il Ministero dell’Agricoltura. Non hanno dato fuoco a nessuno, ma hanno lanciato pomodori contro l’edificio e tentato di occuparlo. Ne è seguito uno scontro con le forze dell’ordine, lanci di lacrimogeni da una parte e pietre dall’altra. Le manifestazioni non hanno interessato solo la capitale, più o meno in tutto il Paese si sono avute contestazioni, strade bloccate e barricate.

Se serve ricordarlo, le condizioni imposte per lo sblocco degli aiuti (di cui quasi il 70% di base finanziati attraverso i fondi ricavati dalla privatizzazione di asset pubblici greci, precisazione non superflua da fare) sono diverse e particolarmente severe per un Paese già parecchio in difficoltà. Sintetizzando, alla Grecia vengono richieste ulteriori misure di liberalizzazione e manovre di “consolidamento delle finanze” volte a contenere la spesa pubblica e aumentare il gettito fiscale. E, inoltre, c’è l’annosa questione del sistema pensionistico, tema spinoso che ritorna a ogni negoziazione sul debito greco.

 

La spesa per le pensioni in Grecia è da lungo tempo oggetto di critiche e dibattiti, soprattutto per la complessità del sistema (nel 2008, quando ben prima della crisi si intrapresero le prime misure per riformarlo, era gestito da 133 diversi fondi). Secondo i più aggiornati dati Eurostat, tale spesa ammonterebbe al 17% del PIL (contro una media UE del 13%). Prima delle riforme introdotte tra il 2010 e il 2012, i greci potevano andare in pensione con 35 anni di contributi, indipendentemente dall’età, con varie deroghe per numerose categorie lavorative considerate come logoranti. Con la nuova riforma, viene posto un limite minimo di anzianità di 67 anni oppure 62 anni di anzianità con 40 anni di contributi (si parla di riduzione del 40% per chi decida di andare in pensione prima dell’età minima); tra le altre cose, alcune modifiche sono state introdotte in termini di tassazione e contribuzione, una misura che interessa anche le pensioni integrative per le fasce più deboli.

Come lo stesso Wall Street Journal, non certo un giornale bolscevico, ha fatto notare, alcune considerazioni sono doverose per circostanziare la necessità e l’urgenza di tali riforme. Innanzitutto, se è vero che la Grecia spende molto per le pensioni, questo è dovuto al suo profilo demografico e una consistente popolazione over 65 (terza solo a Italia e Germania). In secondo luogo, è opportuno tenere presente che il PIL del Paese si è fortemente contratto a partire dal 2009, per cui qualunque calcolo della spesa per pensioni sul PIL tende a sovrastimare l’effettiva portata del fenomeno. Anzi, in un’economia letteralmente tracollata negli ultimi 5-6, il reddito da pensione – per altro in media decisamente non elevato – rappresenta spesso un’importante entrata per le famiglie in difficoltà.

Infine, una breve analisi delle stime sull’età effettiva di pensionamento degli ultimi 10 anni fornite dall’OCSE mostra come la Grecia, con una media di poco meno di 62 anni, sia perfettamente in linea con Paesi quali Austria (61,5), Germania e Finlandia (entrambe 62,3) e superiore a Belgio (59,8) e Francia (59,5); i dati fanno riferimento al pensionamento maschile, ma poco cambia guardando a quello femminile. Nonostante l’importanza di modernizzare e intervenire su inefficienze e legislazioni inutilmente complesse, ciò dimostra come la retorica del baby pensionato parassita sia piuttosto il frutto di stereotipi grossolani (quando non di malafede) che non un vero argomento esplicativo della crisi greca che – lo abbiamo spiegato più volte su queste pagine – è piuttosto da attribuirsi alla struttura stessa dell’eurozona.

Per quanto riguarda gli agricoltori, veri protagonisti delle proteste di queste ultime settimane, la riforme prevendono un fortissimo aumento dei contributi sociali (dal 6,5% al 27%), il raddoppio – il secondo nel giro di pochi anni – dell’imposta sul reddito (dall’attuale 13% al 26%), l’eliminazione dei sussidi per il gasolio e l’aumento dell’IVA di dieci punti percentuali (dal 13% al 23%) su semi, mangimi per animali e pesticidi. Decisioni durissime, che ha detta di molti intervistati rischiano di portarli al fallimento.

In Titoli di Coda, l’ultimo episodio della serie di romanzi gialli sulla crisi di Petros Markaris, un serial killer colpisce, fra le altri vittime, degli agricoltori corrotti, arricchitisi grazie ai fondi di sviluppo dell’Unione Europea e sfruttando la manodopera di migranti provenienti dall’Europa dell’Est. Tutti i quattro libri che Markaris dedica alla morte ai tempi della crisi del debito raccontano infatti di ingiustizie e corruzione, clientelismo e privilegi, un Paese che nel suo vacillare si rende conto di quanti soprusi abbia subito per mano di pochi. Una narrazione che in fondo ritroviamo anche nella lettura dominante dei problemi dell’economia greca: la Grecia ha vissuto al di sopra delle sue possibilità e ora la cicala sconsiderata deve pagare per il proprio debito.

Ma poco importa ora se gli agricoltori che ora sono insorti con Tsipras, colpevole di non avere mantenuto alcuna promessa elettorale e stare di fatto portando avanti l’agenda dei creditori internazionali, abbiano beneficiato o meno di privilegi o politiche troppo generose. Quella è un’altra storia e, solo per questo momento, lasciamo che se ne occupi la letteratura, che ha fatto sinora un lavoro migliore di quello di burocrati, economisti e politici.

Sulla Grecia si sono spese così tante parole (moltissimi meno gli investimenti produttivi, peccato) che è impossibile non ripetersi. Eppure ci vogliamo ripetere: questo terzo programma di “salvataggio” non funzionerà come non hanno funzionato i precedenti. Anzi, questi due hanno peggiorato la situazione e posto il Paese nella condizione di dover richiedere altri aiuti per ripagare un debito le cui cause risiedono altrove rispetto alle pensioni dei cinquantenni e ai sussidi degli agricoltori. E quando un’economia è in difficoltà, non sono le manovre di “efficienza” e “razionalizzazione” a dover essere messe in atto, bensì quelle per ricreare un sentiero di crescita sostenendo e rilanciando la domanda interna, non contraendo il potere d’acquisto in nome dei pareggi di bilancio.

Questo ci dicono le proteste attualmente in corso, questo dovrebbero capire esperti e funzionari anziché accanirsi sulle quattro nozioni imparate sui banchi dell’università, sugli stessi manuali di economia da laboratorio insegnati da Shanghai a Buenos Aires. La realtà e il buon senso dicono altro e forse è ora di accettare che è giunto il tempo di cambiare libri.

(Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice,
espresso a titolo personale)