Dragonomics – Operai e industriali Ue contro la Cina

I metalmeccanici europei marciano a braccetto con i propri padroni contro l’acciaio cinese e la concessione dello status di «economia di mercato» a Pechino. Eppure l’eccesso di offerta fa male su entrambi i lati di Eurasia, solo che non si sa come uscirne, per lo meno in tempi ragionevolmente brevi.

di Gabriele Battaglia
China Files

Il 15 febbraio, migliaia di metalmeccanici europei hanno marciato insieme ai loro padroni su Bruxelles. Per rendere plausibile questa scena – fantascientifica fino pochi anni fa – ci voleva la Cina. I lavoratori e le imprese del Vecchio Continente manifestano infatti contro l’eventuale concessione dello status di «economia di mercato» (Mes) a Pechino, che renderebbe molto difficile alzare barriere doganali contro il dumping, la concorrenza sleale e i sussidi, grazie ai quali l’acciaio cinese invade i nostri mercati. Pare che «i cinesi non passeranno» sia uno degli slogan più in voga.
Un moderno «no pasaran» trasformato di senso: non sono più i fascisti foraggiati dagli industriali, quelli da respingere; ci si mette con gli industriali per respingere le produzioni della Cina e, più in generale, dei Paesi emergenti (a cui va aggiunta la Russia).
La globalizzazione sostituisce il conflitto di classe con la guerra commerciale tra macrosistemi regionali, in un quadro generale contraddistinto da un eccesso d’offerta che di solito trova nella guerra – quella vera – la sola via d’uscita.

Ma torniamo a Bruxelles. L’industria siderurgica europea soffre di una sovraccapacità che ha portato al taglio di migliaia di posti di lavoro negli ultimi mesi. La domanda langue sotto i livelli pre-crisi finanziaria del 2008 e i prezzi sono crollati del 40 per cento circa negli ultimi due anni. Il prezzo dei coil laminati a caldo – punto di riferimento del settore – è crollato dai 600 euro a tonnellata della scorsa estate ai circa 350 di oggi. Nello stesso tempo, c’è stato invece il boom delle importazioni dalla Cina, il più grande produttore al mondo: dai 4,5 milioni di tonnellate del 2014 si è passati ai circa 7 milioni (dato ancora provvisorio) del 2015.
Sempre più preoccupati dalla situazione, sette governi di paesi produttori d’acciaio hanno spedito a inizio mese una lettera alla Commissione Europea, chiedendo di intensificare le misure protezionistiche: Germania, Italia, Regno Unito, Francia, Polonia, Belgio e Lussemburgo.
La Ue ha aperto tre indagini contro produttori cinesi e imposto tariffe su due tipi di acciaio importato dal’ex Celeste Impero. A oggi, l’Unione dispone di 37 misure di difesa commerciale sulle importazioni di prodotti d’acciaio; 16 riguardano specificamente la Cina.
Situazione simile negli Stati Uniti, dove il segretario al Commercio Penny Pritzker ha dichiarato di recente al Wall Street Journal che il suo dipartimento sta esaminando il maggior numero di casi antidumping degli ultimi 15 anni, che i due terzi hanno a che fare con l’acciaio e che «la stragrande maggioranza riguarda la Cina».

Pechino sostiene che il Mes scatta automaticamente dopo 15 anni di adesione al Wto. La Cina diventerebbe quindi «economia di mercato» a dicembre 2016. In Europa si ritiene invece che lo status sia una concessione che va quindi ratificata dagli altri membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. La Commissione Europea ha quindi al vaglio tre opzioni: concedere lo status alla Cina; non concederlo e mantenere le misure antidumping già esistenti; perseguire una terza via, che concede alla Cina il Mes, introducendo però alcune misure che ne mitighino le conseguenze. Questa terza opzione sembrerebbe quella preferita dai burocrati di Bruxelles, ma il blocco siderurgico europeo spinge per la seconda e ha presentato alla Commissione uno studio secondo cui la concessione dello status a Pechino – anche se mitigato – farebbe perdere sul medio-lungo periodo tra i 63.600 e 211mila posti di lavoro. Un’altra ricerca di Aegis Europe – un gruppo di circa trenta industrie europee – alza questo dato fino a 1,7-3,5 milioni di posti di lavoro a rischio nell’intera Ue.

Tuttavia, l’Europa resta più disunita che mai. I sostenitori del Mes alla Cina dicono infatti che la concessione dello status indurrebbe Pechino a iniettare sempre più denaro nella stagnante economia europea, il che consentirebbe di aumentare gli investimenti in infrastrutture e i posti di lavoro. Se si procede per divisioni geografiche sommarie, diremo che le nazioni del Sud Europa – e soprattutto l’Italia – sono per una posizione più rigida, mentre i nordici, come Regno Unito e scandinavi, sono generalmente favorevoli.

E ora andiamo a Pechino. Ogni Paese membro del Wto deve produrre annualmente all’organizzazione un resoconto dei propri sussidi, di modo che le altre economie possano valutarne l’impatto. La Cina non l’ha fatto per anni, finché nel 2015 ha finalmente consegnato un rapporto 2009-2014 che però solleva parecchie critiche per due motivi: riporterebbe i sussidi concessi dal governo centrale ma non da quelli locali; non darebbe conto di tutte quelle misure che di fatto sono sussidi mascherati, come «il fondo speciale per l’alleviamento della povertà».

Il bello è che questa condotta «disinvolta» crea problemi – e grossi – soprattutto alla Cina. Nelle scorse settimane, le autorità di Pechino hanno «consigliato» all’Europa di ponderare bene la questione Mes e le tariffe, ma la sovrapproduzione di acciaio «cheap» fa danni anche in casa. Il problema è infatti quello delle jiangshi qiye, «imprese zombie», industrie inefficienti tenute artificialmente in vita per ragioni di opportunità politica. Il sussidiato settore siderurgico cinese produce oggi oltre 800 milioni di tonnellate d’acciaio l’anno, per una sovraccapacità di circa 400 milioni di tonnellate. La multinazionale mineraria Rio Tinto stimava lo scorso maggio che nonostante il rallentamento dell’economia cinese, si arriverà al miliardo di tonnellate entro il 2030.

A fine 2015, in diversi e ripetuti discorsi, il premier Li Keqiang si è però messo di mezzo e ha dichiarato guerra alle «imprese zombie». Certo, magari c’è anche qualche valutazione politica per compiacere Europa e Stati Uniti, ma il problema vero è domestico: per ridare slancio all’economia in rallentamento, bisogna togliere risorse alle industrie inefficienti e inquinanti per trasferirle ai settori d’avanguardia.
Quindi da un lato Pechino lancia il grande progetto della Via della Seta che, in termini economici, significa anche trasferire il proprio eccesso d’offerta all’estero, sotto forma di rotaie, traversine, bulloni, ponti e via dicendo. Dall’altro, cerca di sostituire i posti di lavoro nel settore siderurgico con nuove industrie innovative, tecnologiche, avanzate.
Ma c’è una non coincidenza temporale: la transizione cinese richiede anni, forse decenni; la perdita di posti di lavoro tra i metalmeccanici europei si misura invece in mesi. Il conflitto commerciale tra i due lati d’Eurasia è destinato a durare.