Vivere liberi o morire con dignità

Intervista con la moglie del giornalista palestinese
Mohammad al-Qiq, da tre mesi in sciopero della fame perché incarcerato dalle forze di sicurezza israeliane
senza che si conoscano le accuse a suo carico

di L.P.

Mohammad al-Qiq, giornalista palestinese della Cisgiordania, manca da casa da tre mesi. Lo hanno arrestato la notte del 21 Novembre 2015 i soldati israeliani. In detenzione amministrativa, incarcerato senza accusa, torturato ripetutamente, ha deciso di iniziare uno sciopero della fame che dura da circa tre mesi.

Questo è l’unico mezzo pacifico che ha per rivendicare la sua libertà e denunciare le violenze commesse da Israele.

A casa Mohammad ha lasciato la giovane moglie e due piccoli bambini che abbiamo incontrato domenica 21 febbraio. Fayha Shalash, la moglie, anche lei giornalista, non vede il marito da quando lo hanno portato via, perché è stato incarcerato in uno dei peggiori centri di detenzione nel nord della Cisgiordania. Attualmente si trova ad Afula in un ospedale israeliano, dove alla moglie e a tutta la famiglia di al-Qiq è vietato recarsi.

Fayha descrive l’assenza del marito come un vuoto immenso, soprattutto per i figli che chiedono quotidianamente dov’è il padre e quando torna. E la cosa peggiore, sostiene la moglie, è che i bambini rischiano di non rivedere mai più il padre, senza sapere il motivo per cui è stato loro sottratto questo diritto, dato che non si conosce l’accusa per cui è stato incarcerato.

Mohammad svolgeva il suo lavoro di giornalista, denunciava i soprusi israeliani, ma non era un terrorista. Difendeva i suoi diritti e quelli dei colleghi palestinesi e proprio per questo è stato arrestato.

Fayha è una donna forte e coraggiosa, si è ripromessa di non piangere perché sa che la sua forza aiuterà il marito a resistere e finora, dice con una nota di orgoglio, è riuscita a non versare lacrime. Ci confida che si aspettano da un momento all’altro una telefonata in cui viene loro annunciata la morte di Mohammad, ma lei non perde la speranza di rivederlo. Anzi, spera che diffondendo la notizia fuori dalla Palestina, le pressioni internazionali possano mettere fine a questa ingiusta incarcerazione.

Nonostante tutto Fayha condivide appieno la scelta del marito. Considera lo sciopero della fame l’unico mezzo pacifico che un prigioniero può attuare per far valere i suoi diritti e ci dice che sarebbe ancora più efficace se tutti i prigionieri lo iniziassero, per avere una maggiore visibilità e maggiore efficacia.

Fayha si fa portavoce del messaggio del marito: «Mohammad ama la vita, ama la sua famiglia e vorrebbe tornare dai suoi figli, ma lo tengono imprigionato. Ha iniziato lo sciopero della fame perché vuole vivere libero o morire con dignità. Per lui non ha senso passare la vita in prigione, lontano dalla famiglia e subendo continue umiliazioni da parte degli israeliani».

L’appello di Fayha è di diffondere il più possibile la storia della sua famiglia, affinché l’opinione pubblica internazionale conosca la realtà che sono costretti a vivere, sperando così che dietro a pressioni estere il marito sia liberato.