tra colonialismo, arte e letteratura, dove nascono
i nomi di alcune vie delle nostre città
testo e foto di Andrea Cardoni
Questa esplorazione, seppur toponomastica, inizia da un quadro che dista 1.649 chilometri dal posto da esplorare. Secondo Google Maps, si possono percorrere in macchina in sedici ore e undici minuti tramite la A1/E35 (o 14 ore e 38 minuti con strada senza traffico, dipende dal Raccordo Anulare). Il quadro è su un muro del terzo piano del Tropenmuseum di Amsterdam ed è datato 1970, olio su tela. Sulla tela, dominano il verde, il rosso e il giallo che dovrebbero essere i colori dell’Etiopia. Ci sono tre personaggi a cavallo: in alto c’è San Giorgio armato di lancia, a sinistra l’imperatore Menelik e l’imperatrice Taytu che tiene stretta in mano una pistola. Intorno a loro quella che venne definita dagli italiani «un’armata puzzolente» che punta le armi verso la destra del quadro dove c’è un esercito con divisa e caschetti bianchi, armato di cannoni («I barbari non sentono se non la forza del cannone; ebbene questo cannone tuonerà al momento opportuno», cit. Capo del Governo Francesco Crispi) e capitanati dal Generale Baratieri che si nasconde dietro ad un’altura dove è issato il tricolore italiano.
È la battaglia di Adua: «alla fine del diciannovesimo secolo, le forze coloniali d’Europa si divisero l’Africa. L’Italia pretese l’Etiopia. Il primo marzo 1896 un primitivo esercito etiope sconfisse l’esercito italiano nella battaglia di Adua. L’Etiopia fu il primo paese africano a sconfiggere una potenza occidentale coloniale in una battaglia diretta». Questa è la descrizione con cui il Tropenmuseum di Amsterdam accompagna il quadro della battaglia di Adua.
A Roma, a più di milleseicento chilometri da Amsterdam, Adua è una via, Adua è il titolo di un romanzo del 1978 scritto da Giuseppe Tugnoli e Adua è la figlia di Zoppe nell’ultimo romanzo di Igiaba Scego.
Ma Adua è anche madre di vicende letterarie e storiche che raccontano storie di nomi che oggi si trovano nelle strade e che in alcuni casi possono anche avere una relazione, in qualche modo, con i fatti che succedono e che forse, in parte, può spiegarli.
Il primo nome è quello di Oreste Baratieri, l’unico generale coperto nel quadro del Tropenmuseum, nato in quella che oggi è la provincia di Trento col nome di Baratter, italianizzatosi prima in Barattieri e poi in Baratieri, era «un uomo piccolo e grassoccio, pulito e ordinato, che solo nella lontana giovinezza era stato al fuoco, e che tuttavia comandava una forza i diecimila uomini», così lo descrive Tugnoli nel suo romanzo. Ci sono tre vie in provincia di Trento che portano il suo nome: a Rovereto, a Pergine Valsugana e a Borgo Chiese.
Arrivato in Africa con la fama di «miglior giornalista di quanto non fosse generale», ritenuto un grande stratega, Baratieri, che sempre nel romanzo di Tugnoli doveva fare «una battaglia a cui non credeva e che sperava non dovesse accadere», venne sostituito pochi giorni prima la sconfitta di Adua da Antonio Baldissera (che però il giorno di Adua era ancora in viaggio), già comandante superiore delle truppe in Eritrea nel 1886, che dichiarava «dobbiamo portare in Africa la civiltà non per gli Abissini ma per noi» (da Italiani brava gente? di Angelo del Boca).
Via Antonio Baldissera si trova nella zona Portonaccio-Casal Bertone, paralella a via Asinari Di San Marzano, cui Baldissera subentrò in Eritrea, e incrocia due strade: via Baldassarre Orero e via Giuseppe Pianell. Le storie di queste tre persone, Baldissera, Orero e Pianell, si incrociarono anche in Africa in un processo che vedeva i primi due accusati di abusi e violenze in Eritrea (tra il 1888 e i 1890) e Salvatore Pianell tra i generali che il 19 novembre 1891 li assolsero per non aver violato la disciplina militare.
L’accusa venne mossa da Dario Livraghi, tenente dei carabinieri, capo della polizia indigena dell’Eritrea che accusava Baldissera e Orero di aver ordinato l’eliminazione di 800 eritrei, sospettati di voler disertare. Angelo Del Boca in Italiani brava gente? ricorda che Antonio Baldissera, cresciuto in Austria nel 1838, aveva fatto studi militari al Wiener Neustadt, Capo di Stato Maggiore nel 1886, dichiarò «È vero che ho fatto fucilare otto o dieci indigeni senza chiamare a giudicarli il tribunale di guerra (…). Era necessario incutere terrore per tener soggetti quei barbari».
Secondo il novarese Baldassare Orero, già distintosi per l’assedio di Borgo Pio (1860), nominato governatore militare e civile dell’Eritrea cui i possedimenti italiani vennero riuniti sotto il nome di Colonia Eritrea nel gennaio 1890, sostituto di Baldissera nel Tigrè e vincitore della “buona vittoria di Adua” (secondo Crispi) nel gennaio 1890, «era quasi necessità di fucilarli segretamente lasciando credere alle famiglie che fossero stati mandati in Italia». Il tutto mentre nelle carceri eritree di Nocra, Asmara, Massaua, Cheren, Addi-Ugri, Adi-Chaieh gli italiani consumavano orrori contro prigionieri politici e cittadini eritrei.
Il 25 novembre 1891 a Massaua il generale Baldissera si presentò al banco dei testimoni e disse: «Assumiamo la pena responsabiltà di nove omicidi commessi da Adam Agà e dei cinque commessi da Livraghi. La pericolosa situazione della colonia suggeriva tali soppressioni. Ne presi io stesso l’iniziativa». Dal processo emerse anche che i prigionieri venivano uccisi con le mazze per non far rumore, e che venivano perpetrati arresti ed esecuzioni abitrari.
Come ha ricordato poi Loredana Lipperini all’indomani dei “fatti di Colonia”, Baldissera dispose il sorteggio delle cinque mogli del Kantimai Aman per essere violentate dagli ufficiali italiani dopo la conquista di Asmara. La commissione reale d’inchiesta assolse tutti.
È il 17 agosto 1930 e gli aviatori Francis Lombardi e Gino Capannini, dopo aver compiuto il raid Vercelli-Tokyo, atterrano a Roma nell’aeroporto del Littorio accolti dal ministro Italo Balbo, da autorità giapponesi e italiane. Il giorno successivo il Governatore di Roma Francesco Boncompagni Ludovisi, da Foligno, nominato con decreto reale su proposta del Ministero dell’Interno, delibera i toponimi di via Giuseppe Pianell Generale (1818-1892), via Antonio Baldissera Generale del Regio Esercito (1838-1917) e via Baldassare Orero Generale del Regio Esercito, Governatore dell’Eritrea (1841-1914) in quello che era chiamato “Suburbio Tiburtino”.
Oggi su queste tre vie ci sono palazzi da sette piani, un negozio di lampadari, l’ex Cinema Puccini (che il Tg3 Regione Lazio così racconta: «La storia dell’ex Cinema Puccini di Casal Bertone è una storia di degrado da oltre quarant’anni: nel 1991 questa è stata una sede di un centro sociale per punk, nel ‘99 un centro d’accoglienza per rom e nel 2011 un centro di raccolta per motorini rubati scoperto dai carabinieri nello stesso anno»), attività commerciali, bar, un negozio di unghie. Su queste tre vie quattro anni fa si registrò lo scontro tra gli esponenti dei magazzini popolari di Casal Bertone e il circolo futurista della vicina via Malabarba. Uno scontro che continua e si legge sui muri e sulle saracinesche.
Questo fu il quartiere dove andarono a vivere gli sfrattati per fare la «Grande Roma» (come dice Luciano Villani nel libro Le Borgate del Fascismo), dove nella seconda metà degli anni Trenta venne costruito il Cinema Impero, identico a quello che si trovava nella “Piccola Roma”, Asmara.
Secondo il navigatore satellitare, ad un chilometro dal Cinema Impero, c’è via Alberto da Giussano dove vive Adua, figlia di Zoppe, la protagonista del libro di Igiaba Scego. A due chilometri dal Cinema Impero,dopo un centro commerciale nuovo che ha spianato un bosco, ci sono le tre vie che portano il nome di Baldissera, Orero e Pianell.
La delibera che a Roma intitolò ad Adua una via venne decisa il 24 luglio 1950 dal sindaco Salvatore Rebecchini, in quello che è il cosidetto quartiere Africano, con Viale Somalia, Viale Libia, Via Dire Dauda, Via Migiurtinia, Via Tripoli, Piazza Amba Alagi, Viale Etiopia, Via Cirenaica, Via Tigré o Via Asmara. Parallela a Via Adua c’è Via Zanzur: entrambe finiscono su viale Eritrea. E questa è una parte di Roma.
Mentre a Amsterdam il Rijskmuseum, il museo civico, ha deciso di ri-intitolare 350 quadri con terminologia razzista o coloniale con nuovi titoli, le priorità di Roma, commissariata, impalazzinata, giubilare, con prospettive olimpiche, sono altre e forse cambiare il nome delle vie non è immaginabile come lo è stato a Bologna per Cirenaica Resistente (oggi al Vag 61 con Igiaba Scego, Rino Bianchi e Wu Ming 1 e 2 con Roma Negata).
Inoltre i nomi delle vie sono messi troppo in alto (quello di via Adua sarà a quattro-cinque metri). Ma forse dovrebbe esserci o se non c’è la si potrebbe inventare, un’applicazione o un navigatore che racconta i nomi delle vie, le storie dei topononimi, e magari dare la possibilità a chi guida o chi cammina di conoscere le origini del nome del posto in cui va, e se la storia vera del nome di una certa via non dovesse piacere, avere la possibilità di cambiarla e sceglierne l’alternativa letteraria: io sceglierei Via Adua, figlia di Zoppe.