Il Kosovo all’improvviso

Ho vissuto in Kosovo molti anni fa, per pochi anni. Ma quando si va in Kosovo una volta, fosse anche solo per un giorno, fosse per un mese, questa è una terra che ti entra negli occhi e poi sotto la pelle e poi ti va in circolo e così non te ne liberi mai più, ti nasce dentro un “persempre” incontrollabile.

di Gabriella Ballarini

Così è successo a me che, per periodi alterni, ho vissuto un anno e mezzo circa in quel dei balcani: era il 2001 ed era fino al 2004. Poi il tempo passa e arriva il 2016 e capita di vivere a Milano. Certe cose, come il fatto di vivere, possono capitare. E quando si vive, ci si imbatte in altre vite. Mi succede di andare all’Hangar Bicocca, per chi non è di Milano, il nome potrebbe suscitare il vago sapore di deposito di aerei, di pezzi di ferro, di locomotive abbandonate, invece è un posto gigantesco e pazzesco, ex Pirelli/Breda, pare ci facessero veramente le locomotive e poi da lì partivano e andavano sulle rotaie. Ora, questo luogo è diventato un enorme spazio espositivo artistico, un museo dagli infiniti soffitti dove artisti internazionali espongo le proprie gigantesche opere.

In questo momento, si possono ammirare i “Sette palazzi celesti” di Anselm Kiefer e poi c’è l’esposizione di Petrit Halilaj, ragazzo kosovaro, classe 1986, alla sua prima “individuale” in Italia, a cura di Roberta Tenconi.

Petrit Halilaj - Via Facebook

Petrit Halilaj – Via Facebook

Entro con altre 15 persone, siamo un gruppo e una guida ci inizia a spiegare. Io sento che mi sto agitando, senza comprenderne il perché, passo in rassegna un po’ di pensieri, ma non capisco. Sento che mi aumentano i battiti, le persone che sono con me, mi guardano e non sanno le mie ragioni, vado dalla guida e chiedo di dove sia questo Petrit, lei mi dice il nome di un villaggio, ma nulla riaffiora alla mia mente. Solo il ricordo vago di un ragazzino con lo stesso nome, che parlava abbastanza bene l’italiano e che a Runik ci aiutò a tradurre dall’albanese all’italiano. Guardando il video della sua installazione attendo l’immagine di lui, per decifrare il ricordo che mi picchia in testa senza contorni. Guardo la grande casa e ascolto la guida, immensa mi appare se la immagino guardata con gli occhi di un bambino. Chiudo gli occhi e cerco di far placare i battiti del mio cuore. Osservo i gioielli a grandezza immensa, con le pietre preziose che sono pietre di guerra, pietre di deflagrazione, pietre di devastazione e paura. Sento la paura di Petrit e d’improvviso mi ricordo che quel ragazzino, quello che traduceva, anche lui disegnava. Ma io sono educatrice, quanti e poi quanti ragazzini che disegnano avrò mai incontrato nella mia vita?

Ma lui era speciale, mi ricordo dei segni rossi, su fogli bianchi disegnati a matita, mi ricordo di un talento di cui parlammo.

Prendo il telefono e comincio a scrivere a Mara e poi a Valentina e poi anche ad Elisa. Alla fine metto tutto assieme, ricostruisco tutto e quel ragazzino talentuoso è proprio lui. Un passato di guerra appena conclusa che irrompe nella mia vita di studentessa, torna in questo presente di guerre infinite. Cerco, cerco, cerco e alla fine ecco che Petrit mi risponde e mi scrive nel suo italiano che d’improvviso mi sembra così familiare, come tanti anni fa, come fosse ieri. Torno ai miei vent’anni e ripenso alla sua mostra, che tutti dovrebbero visitare, per ripensare le radici e gli alberi.

Petrit Halilaj – Via Facebook

Petrit Halilaj – Via Facebook

Le opere sono un racconto per gigantografie, una vita fatta di frammenti, trent’anni di sogni e di tracce del passato che scavano nelle dispercezioni e nelle fantasie fantasmagoriche. “Space shuttle in the garden” racconta di un Kosovo che vive cercando se stesso attraverso quello che c’è, ma anche e soprattutto attraverso quello che è stato spazzato via. Petrit diventa tutti gli adolescenti che ora sono giovani uomini e donne e che hanno sentito la guerra nei piedi, tra le fughe e le paure che contorcono le budella. Quelle paure che nei primi anni duemila mi facevano sbattere la testa al muro, che io ero appena laureata e volevo che i bambini disegnassero e loro mi facevano sempre la casa rotta, mi coloravano tutto di nero e rosso e mi facevano le bandiere con questa aquila nera su sfondo rosso, che ora è stata sostituita con la bandiera blu con il Kosovo giallo e quelle stelle bianche. Quell’insegna araldica nera ripetuta con le due teste, ossessivamente, come fosse il centro di tutto, il centro di un “Io Sono”.

E così, l’artista dell’Hangar Biccoca, era lui, era il giovinetto che traduceva e che sorrideva e ci rassicurava, che era il cugino di Driton e il nipote di Gani. E allora comincio a cercare anche Driton e mi spedisce la foto di alcuni ricordi di quegli anni e io gli spedisco le mie.

Si rimette in piedi quell’albero che non è morto mai, perché aveva radici troppo solide. Attraverso una corrispondenza, corrispondiamo e finalmente siamo. Si ripensa alla teoria dei gradi di separazione, a quei barconi carichi di gente che scappava, si ripensa ai viaggi umanitari e alla prima volta che qualcuno ci chiamò per chiederci se si era pronti a partire.

Il Kosovo all’improvviso ha raggiunto il mio presente per ricordarmi da dove vengo, raccontandomi da dove viene Petrit, raccontandomi di quel pollaio con i polli veri che ora è ammirato ed è opera d’arte, con l’odore di gallina e tutto il resto. All’improvviso ho affrontato l’immensità di un orecchino costruito a dismisura per dire a tutti che i bambini hanno gli occhi grandi e che i grandi hanno il dovere di non nascondere tutto nelle forme piccole, che uccidono ciò che di prezioso la storia ha da dirci ancora.

Fino al 13 di Marzo è possibile visitare la mostra, è possibile meravigliarsi e sentire il nome di Petrit rimbombare tra le installazioni, sapendo che un po’ di noi presto si svelerà e ci sconvolgerà. Senza preavviso.

 

L’immagine in apertura è una foto di Agostino Osio: Petrit Halilaj, Veduta della mostra “Space Shuttle in the Garden”, Courtesy dell’Artista e Pirelli HangarBicocca