Fuori i secondi

Usa, il Super Tuesday conferma il profilarsi della sfida presidenziale fra Hillary Clinton e Donald Trump che vincono sette stati a testa. Reggono Sanders, quattro stati, e Cruz, tre, ma la guerra dentro il Gop è più accesa che mai

di Antonio Marafioti

Tutto secondo programma. Hillary Clinton e Donald Trump dominano il Super Tuesday e si portano a casa la maggioranza dei delegati di sette Stati alle rispettive Conventions di luglio a Philadelphia, Pennsylvania, e Cleveland, Ohio.
L’ex Segretario di Stato, come da pronostico, ha battuto il rivale Bernie Sanders nella fascia degli stati del sud: Alabama (78%), Georgia (71%), Tennesee (66%), Texas (65%) , Arkansas (66%), oltre che in Virginia (64%) e nell’incerto Massachussetts (50%). Sanders ha fatto suoi i voti del proprio stato, il Vermont (86%), e quelli dell’Oklahoma (52%), del Minnesota (62%) e del Colorado (59%). Nel Gop la vittoria di Trump è stata più netta con sette stati (ma 3 principali candidati), Alabama (43%), Arkansas (33%), Georgia (39%), Massachussetts (49%), Tennesse (39%), Vermont (33%)e Virginia (35%), contro i tre di Ted Cruz, che mantiene il suo Texas (44%), l’Oklahoma (34%), Alaska (36%) e l’unico, il Minnesota (37%), conquistato da Marc Rubio.

Due vittorie ampie per entrambi i candidati favoriti, ma con nette differenze politiche all’interno dei rispettivi schieramenti.

Clinton, stato per stato, tweet dopo tweet, ha ottenuto 486 nuovi delegati e ha accolto il risultato con un discorso quasi presidenziale, complimentandosi con l’avversario di partito per le sue vittorie e spostando la portata dello speech sull’attacco diretto a Trump. «Questo paese appartiene a tutti noi – ha detto la candidata davanti al suo pubblico di Miami – non solamente a quelli che stanno ai vertici».
Sanders, dal canto suo, ha incassato 321 delegati dichiarando di voler «continuare la battaglia per la giustizia economica, sociale, ambientale e per un mondo di pace in ogni stato attraverso l’America». Bernie sa che il black vote, atteso e arrivato alla Clinton, rappresenta quello dei neri della middle class, ed è ancora convinto poter incarnare, nelle future tornate elettorali, il vero punto di riferimento della Main Street.

Molto più alta resta invece la tensione all’interno del Grand Old Party dove i successi del tycoon di New York continuano a generare scontri accesi tanto fra questo e i suoi diretti rivali quanto con i membri dell’establishment del partito. È un candidato che proprio non piace pensare in corsa per la Casa Bianca.

Troppo improvvisato, troppo provocatore e con un curriculum in cui risaltano ogni giorno di più capitoli come i problemi col fisco, lo sfruttamento del lavoro irregolare e le simpatie con esponenti vicini al Ku Klux Klan

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Trump fa orecchie da mercante e attacca, oggi più di ieri, forte di un pacchetto impressionante di voti: più 234 delegati.
Se la prende con Marco Rubio, il favorito fra i vertici del partito, «incapace di comunicare – tuona il miliardario dal suo palco di Miami -. Ha speso tanti soldi, ma non è in grado di parlare. Non si è nemmeno avvicinato ai nostri risultati, l’unico modo di vincere per lui sarebbe quello di cambiare totalmente politica. Non ha vinto niente». Ironia del destino, poco dopo avere pronunciato queste parole, Trump ha appreso che il senatore della Florida riusciva in extremis a imporsi in Minnesota. Ben misero risultato per Rubio che continua a ribadire che farà di tutto per bloccare la nomination di Trump, definito «truffatore non degno di rappresentare il partito di Abraham Lincoln». Dunque l’unico ostacolo per l’investitura ufficiale dell’imprenditore pare essere un rafforzamento di Ted Cruz, il conservatore del Texas che in queste ore ha sostenuto di essere «l’unico in grado di battere Trump». Ora il tassello chiave sarà la Florida, lo stato di Rubio, che Trump promette di vincere, ma in cui il senatore è ancora molto forte. In caso di vittoria di quest’ultimo i numeri rafforzerebbero una sua ripresa della corsa o un endorsement a Cruz sul quale il Gop vorrebbe concentrare gli sforzi per fermare la corsa della macchina elettorale del magnate.

Sono due americhe divise da un muro, «quello da abbattere» secondo le dichiarazioni di Hillary Clinton, «quello da far costruire al 100 percento dal Messico», secondo Trump.

«Sono duecento miglia – ha aggiunto –. Se i cinesi hanno costruito 13mila miglia di muraglia senza escavatori, sono certo che il Messico possa erigere un muro di duecento miglia. Io sono un imprenditore, so come convincerli a farlo».
Poi la chiosa, dal retrogusto di minaccia ai suoi, «Io sono l’unico che riesce ad unire e far crescere il partito repubblicano. Appena finirà questa fase, davanti a me avrò solo Hillary Clinton». Che però è favorita (come del resto lo è anche Sanders) nei pronostici di una ormai probabile sfida con Trump per la Casa Bianca. È la conseguenza più naturale di un partito dilaniato al suo interno che lascia ai titanici finanziamenti elettorali, più che alla serietà e all’esperienza politica di uno dei suoi candidati, il destino di una partita di governo che rischia di concludersi con una conferma, la terza, di un’amministrazione democratica.

Prossimo appuntamento per il 5 marzo, quando gli elettori democratici e repubblicani voteranno nelle primarie e nei caucus del Kansas, Kentucky, Louisiana, Maine e Nebraska.

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