L’esilio infinito dei Turchi Meskheti

La destalinizzazione portò alla luce, tra le altre cose, la deportazione di intere popolazioni

di Maria Izzo

Mosca, 1956. Quel febbraio era arrivato come i terremoti, annunciandosi con deboli sussulti e qualche enigmatico segnale. Come quelle luci alle finestre del Comitato Centrale del Partito Comunista, ancora accese nonostante l’ora tarda, nella notte fra il 24 e il 25 febbraio.

Non è da escludere che qualcuno, notando il singolare evento, abbia tentato di indovinare la ragione dell’insonnia che teneva svegli i più alti funzionari sovietici, impegnati in quei giorni nel XX Congresso del Partito; tuttavia, non sarebbero bastate le più ardite fantasie di un visionario scrittore di fantapolitica per intuire il tumulto che agitava l’edificio e profetizzare l’arrivo del sisma che stava per scuotere con forza le fondamenta dell’URSS e di tutto il mondo comunista.

Nessuno avrebbe potuto immaginare che il giorno successivo, nel corso di una sessione segreta del Congresso, Nikita Khrushchev, Primo Segretario del PCUS e leader dell’Unione Sovietico, avrebbe rivelato chi era stato veramente il suo predecessore Yosif Stalin: lontano dall’immagine del divino condottiero temuto e venerato che aveva fregiato la patria di una trionfante vittoria sui Nazisti, Stalin altro non era che un tiranno spietato e capriccioso, un mostro sanguinario che, fra le numerose violenze commesse, aveva ordinato la deportazione forzata e l’annientamento di interi popoli. In una sola parola, un criminale.

Così, nel silenzio di una sessione segreta, fra lo sgomento dei convenuti, in quel febbraio del 1956, implodeva lo stalinismo. Poco dopo, dalle macerie di quella macchina del terrore, dagli anfratti più oscuri e nascosti dove erano stati relegate, iniziavano a riemergere le vittime: Tatari di Crimea, Tedeschi del Volga, Ceceni, Ingusci, Balkari, Karachay, Calmucchi, Turchi Meskheti, interi gruppi etnici che, nel corso della Seconda Guerra Mondiale erano stati letteralmente spazzati via dalla loro patria storica e poi condannati all’esilio e all’esclusione sociale in Asia Centrale, mentre il governo sovietico, non pago della rimozione fisica, si adoperava con solerzia per cancellare ogni traccia della loro esistenza.

Ora però il discorso segreto di Khrushchev riportava alla luce la loro storia e riapriva le porte per il ritorno, autorizzato nel 1957 con un decreto del Presidio del Soviet Supremo che riabilitava i popoli deportati.

Ma sventuratamente questo non fu affatto l’inizio di un lieto fine. Al rientro, infatti, molti trovarono i propri beni distrutti o espropriati e assegnati ad altri gruppi etnici ritenuti più fedeli e altrettanti si ritrovarono ad affrontare una fase di ulteriori abusi, ingiustizie e rivendicazioni inascoltate, che avrebbero creato terreno fertile per le violente contese territoriali esplose decenni dopo, con il crollo dell’Unione Sovietica; ad altri popoli, come i Tatari di Crimea e i Tedeschi del Volga, il rientro fu negato e concesso solo molti anni dopo; altri, invece, aspettano ancora, come i Turchi Meskheti, che a sessant’anni dal discorso di Khrushchev, sono ancora in attesa di giustizia e di una patria.

I Turchi Meskheti, turcofoni di religione musulmana, abitavano il sud della Georgia, l’area del Samtskhe-Javakheti, storicamente nota con il nome di Meskhetia; nel mondo turco, di cui questo popolo si sente parte integrante, sono più conosciuti come Ahıska Türkleri.

Proprio la vicinanza geografica e culturale con l’ostile Turchia era stato il motivo che aveva indotto Stalin, sull’onda di una geopolitica paranoica, a disporre la ricollocazione forzata di un popolo visto come potenzialmente pericoloso.

Dal Caucaso meridionale circa 100.000 Turchi Meskheti avevano viaggiato per kilometri su carri bestiame fino a raggiungere l’Asia Centrale, più precisamente il Kazakhstan, il Kyrgyzstan e l’Uzbekistan, dove si insediarono a Samarcanda, Tashkent e nella valle di Fergana.

L’accoglienza loro riservata si rivelò a dir poco inumana. Le autorità locali, infatti, impreparate a gestire il flusso di arrivi, li avevano alloggiati in baracche o in case diroccate, dove in 6 mesi un terzo dei rifugiati fu decimato dalla fame e dal freddo.

Quelli che riuscirono a sopravvivere, invece, si ritrovarono a dover affrontare un futuro con prospettive tutt’altro che rosee. Discriminati dalla popolazione locale e sottoposti dalle autorità sovietiche al regime speciale che negava anche i diritti umani più elementari, compresa la libertà di movimento, i Turchi Meskheti furono condannati a vivere in condizioni di emarginazione e deprivazione estrema per più di vent’anni, fino a quando nel 1956 il regime speciale non fu abrogato.

Tuttavia, quando nel 1957 il Soviet Supremo emanò il decreto che riabilitava i popoli deportati, dei Turchi Meskheti non fu fatta menzione. Mentre per le altre vittime delle deportazioni staliniane si apriva la strada per il ritorno, la sorte infausta dei Turchi Meskheti sprofondava nell’indifferenza delle autorità.

Negli anni ’60 i Turchi Meskheti si costituirono in un movimento numeroso e coeso rivolto a promuovere la causa del rientro, ma, nonostante le petizioni e i tentativi di dialogo con le autorità sovietiche, le rivendicazioni del movimento, allora e negli anni successivi, vennero costantemente accolte con disinteresse dagli interlocutori, quando non brutalmente represse dalle forze di polizia.

Nel 1974 finalmente un decreto legislativo aboliva tutte le restrizioni formali che obbligavano i Meskheti all’esilio in Asia Centrale, ma questo non implicava la garanzia del ritorno. Infatti, in un paese come l’URSS, dove la libertà di movimento era già di per sé limitata da un sistema di passaporti interni rigido e fortemente burocratizzato, gli spostamenti si mostravano ancor più complicati per chi, come i Turchi Meskheti, abitava le aree di confine sottoposte a uno statuto ancora più restrittivo.

Nei fatti, quindi, la strada verso il ritorno era irrimediabilmente chiusa e i Turchi Meskheti sembravano destinati a dover proseguire nel loro esilio in Asia Centrale, fino a quando, nel 1989, non si ritrovarono alle frontiere uzbeke, pronti per una nuova migrazione.

Ma le circostanze che li spingevano a partire non si possono di certo definire felici: più che di partenza, infatti, sarebbe corretto parlare di fuga. I Meskheti cercavano di sfuggire a una nuova ondata di persecuzioni, perpetrate stavolta da bande di Uzbeki in preda a un violento rigurgito di estremismo nazionalista. Forse diretti da una regia più alta, quella sovietica, sicuramente mossi dal risentimento per le precarie condizioni economiche e infiammati dalla competizione in campo occupazionale, i nazionalisti uzbeki scatenarono un vero e proprio pogrom ai danni dei Meskheti della Valle di Fergana, che nell’area rappresentavano un elemento “altro”.

Al termine dei disordini, durati due settimane e interrotti dall’intervento dell’esercito sovietico, si contarono fra i Turchi Meskheti 100 morti e circa 1000 feriti.

In quella situazione di drammatica insicurezza un nuovo esilio si presentò come l’unica via di fuga. Dall’Uzbekistan una parte dei Turchi Meskheti, circa 70.000, si spostarono per volere delle autorità sovietiche nelle aree centrali della Russia, dove si registrava ai tempi una certa carenza di forza lavoro, placando in questo modo il grattacapo demografico che secondo i maligni aveva spinto Mosca a sobillare gli Uzbeki alla violenza.

Alcuni gruppi di Meskheti riuscirono ad arrivare in Turchia; altri si sparsero in aree diverse dell’URSS – Russia, Azerbaigian, Kazakhstan, Ucraina – ma, ancora una volta, venne loro negata la possibilità di rientrare in Georgia, dove il caos politico degli ultimi anni di vita dell’Unione Sovietica aveva trasformato la repubblica caucasica in un’autentica polveriera.

Solo due mesi prima del pogrom uzbeko l’esercito sovietico aveva massacrato a Tbilisi dei manifestanti che chiedevano l’indipendenza della Repubblica georgiana. L’orrore e il trauma dell’evento erano rapidamente degenerati, trasformandosi in astio nazionalista e tensione interetnica. In questo scenario, i leader del movimento di indipendenza nazionale georgiano ritirarono il proprio sostegno al rientro dei Meskheti – turchi musulmani – in Georgia – area di tradizione cristiana – e si proclamarono apertamente contrari. Di conseguenza, gli stessi Meskheti che erano riusciti a rientrare, furono violentemente espulsi.

Le comunità diasporiche di Turchi Meskheti si trovano oggi disperse in diversi paesi del mondo; fra questi, Turchia e Stati Uniti, dove circa 11.500 sono stati accolti come rifugiati. Le cifre più significative, però, si rilevano ancora nei territori dell’ex URSS, dove risiedono 270-290.000 Meskheti, costretti affrontare in alcuni casi pesanti abusi da parte delle autorità, come accade nell’area di Krasnodar, nel sud della Russia. Il problema maggiore, per i Meskheti che risiedono in questa zona, è l’accesso ad alcuni diritti e servizi di base, interdetti dal mancato ottenimento della cittadinanza.

Le pratiche per ottenere la cittadinanza, infatti, sono ostacolate da una burocrazia farraginosa, a cui si sommano l’ostilità e l’arbitrio dei funzionari pubblici. Di conseguenza, alcuni sono ancora in possesso di passaporto sovietico, risultando, quindi, ufficialmente cittadini di uno stato che non esiste più da venticinque anni.

La mancata concessione della cittadinanza impone certamente ai Turchi Meskheti dell’area di Krasnodar una quotidianità a dir poco travagliata, ma non è stato più generoso il destino dei circa 2.000 Meskheti che si erano insediati nelle aree orientali e meridionali dell’Ucraina, zone attualmente interessate da un conflitto armato.

In questo eterno migrare, oggi, come 60 anni fa, il ritorno è ancora una promessa non mantenuta, nonostante la caduta del sistema sovietico e il mutamento di interlocutore.

L’ago della bilancia nella questione del rientro dei Turchi Meskheti, infatti, non è più l’Unione Sovietica, ma la Georgia, diventata repubblica indipendente nel 1991. Ma, come la storia ci ha più volte mostrato, le sostituzioni di bandiere sono un cambiamento di forma che non necessariamente va a intaccare la sostanza. E infatti, a dispetto delle migliori intenzioni dichiarate sulla carta, degli impegni con presi con l’Unione Europea e di una legge emanata nel 2007 che dispone il rientro dei Meskheti, la situazione resta immutata.

Gli attivisti di Vatan, l’Associazione internazionale dei Turchi Meskheti impegnata nella causa del rientro, lamentano, proprio come accadeva nei tempi ormai andati dell’URSS, l’esasperante burocratizzazione delle procedure per il rimpatrio e l’assurdità dei requisiti per la richiesta della cittadinanza, in primo luogo quelli linguistici. Le lingue richieste per l’ottenimento della cittadinanza sono infatti l’inglese e il georgiano, mentre vengono esclusi turco e russo, che sono invece le lingue comunemente in uso fra i Meskheti. Inoltre, nella lista dei documenti richiesti è incluso un certificato che attesti la discendenza da famiglie di deportati, requisito che suona alquanto beffardo, poiché nessuna documentazione a riguardo fu mai emessa nel ’44, all’epoca della deportazione.

L’ostruzionismo della Georgia non è privo di motivazioni. L’atteggiamento negativo del governo di Tbilisi nasce da due ragioni principali: la prima è la recessione economica che caratterizza la regione del Samtskhe-Javakheti, patria storica nella quale i Meskheti aspirano a ritornare; la seconda è legata al possibile inasprimento delle relazioni interetniche di un paese già alle prese con due grosse spine nel fianco, le repubbliche secessioniste di Abkhazia e Ossezia del Sud; infatti, in un momento storico caratterizzato da un diffuso e generalizzato ritorno di furori nazionalisti, il rimpatrio dei Meskheti comporterebbe, con l’inserimento di un gruppo musulmano e turcofono, il rischio di possibile conflittualità con la popolazione locale, costituita da cristiani georgiani e armeni.

D’altra parte però questo non rende meno stringente la necessità di restituire uno status, una dignità e dei diritti a un popolo che, avendo attraversato sessant’anni di traversie e promesse disattese, ha compreso forse più rapidamente di altri e a proprie spese che, a dispetto del tanto sbandierato allontanamento dal modello sovietico, esiste ancora uno stretto legame di continuità fra il sistema repressivo, autocratico e burocratizzato dell’URSS e le claudicanti democrazie che si sono instaurate in molti paesi dell’ex spazio socialista, comprese quelle che gravitano ormai da anni nell’orbita EU.