Il 13 ottobre 2009 non ricordo dove fossi

Il 13 di ottobre del 2009 non mi ricordo dove fossi. Non è una cosa facile, provateci anche voi. Dove eravate il 13 di ottobre? Che giorno era? Vi aiuto, era un venerdì. Allora? Sono pronto a scommetterci, non avrete una risposta in tasca.

di Angelo Miotto

In ogni caso ero sicuramente nella casa in cui vivo ora, lavoravo da due anni a PeaceReporter, poco dopo si sarebbe arrivati a immaginare E il Mensile (una prece, fu chiuso nel 2012) e adesso che ci penso, mentre scrivo, quel 2009 finale mi dice che erano vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, dalla Cortina di ferro e che insieme a tanti amici e colleghi eravamo in fibrillazione per presentare il nostro primo webdocumentario.

La piccola aveva due anni compiuti, la grande quattro. Materna e asilo, passeggini sicuramente, pannolini forse, non ricordo più come vuole il vecchio adagio – vero – che le fatiche dei primi anni con i figli poi svaniscono, gli occhi crepati di sonno, il ciondolare barbasfatta e poca lucidità per notti insonni. Matteo Renzi era diventato sindaco a Firenze e a Palazzo Chigi stava Silvio Berlusconi. Non faccio battute, andiamo avanti.

Il 2009 così a memoria mi fa tornare lì, ad Amsterdam, con un fotogramma preciso di una delle strade che portava verso la sede delle proiezioni, nel centro, mentre cadeva una pioggia sottile e il selciato era bagnato, i lampioni che illuminano le gocce in un tratteggio raffinato, i canali, un bianco e nero con qualche riflesso di luce desaturata e il campanello dei tram nelle orecchie, quell’entusiasmo di chi ha un progetto bello, nuovo e fatto fra amici da presentare in una sede internazionale rinomata. Ecco, il 13 ottobre, forse, stavamo finendo i preparativi per tutto questo, e la mattina mi sarò alzato alle otto per andare all’asilo alle 9 e un quarto, e forse alla stessa ora anche per la materna, ci si dimentica anche degli orari ripetuti ogni giorno, dopo un po’. La redazione era in San Babila a Milano, non ero ancora passato a un mac, Windows credo che fosse a 7. Ma chi può dirlo.

Succede a vivere il tempo questo meccanismo particolare: che a volte sei così impegnato a vivere intensamente e ad archiviare decine e decine di dati che la memoria breve reagisce, ma i ricordi che si sedimentano vanno a finire in stanze poco luminose o arieggiate.

Poche settimane fa’, per la morte di Umberto Eco, ho rivisto una sua intervista dove spiegava il meccanismo per cui quando invecchi tornano i ricordi: semplicemente perché  – sosteneva in una comoda poltrona e con aria divertita – perdi la capacità di immagazzinare la memoria breve e lasci spazio a quello che hai archiviato in precedenza.

Ecco, per esempio adesso mi ricordo, mentre scrivo, che prima di arrivare ad Amsterdam eravamo passati da Perpignan, Visa pour l’Image, e poi da Parigi. Insomma un autunno davvero elettrizzante.
Erano sei anni e mezzo fa. C’è talmente tanta vita in mezzo, licenziamenti collettivi, chiusura di un giornale e di un sito, nuove iniziative, nuovo giornale, nuovi lavori, nuove professioni, figlie che crescono, coppia che matura, lutti familiari, lavori in casa, imbiancare casa spostando tutti mobili al centro delle stanze e passare il rullo, concerti, stagioni musicali, nuove rotte e vacanze francesi provenzali. Se guardo i nipoti non parliamone neanche, in sei anni e mezzo dalle elementari all’università. Facce che cambiano, corpi, sguardi, rapporti, identità.

Quanta musica avrò ascoltato davvero? Quanta sarà stata solo un tappeto per altre operazioni in cucina, o con i pennelli su una stoffa, una tela. Quanti milioni di minuti in telefonate, quanti piani tariffari avrò cambiato. È un gioco interessante, lo consiglio, perché ti obbliga a fermarti.

Fermarsi non è per niente facile. Ti obbliga a chiuderti per più di un attimo nei tuoi pensieri, per tornare indietro, per cercare di rimettere insieme, senza guardarla, l’agenda. Per capire gli snodi importanti, i cari che se ne sono andati, i nuovi nati, i nuovi amici, quelli che non lo sono più.

Altalene psicologiche che hanno vissuto dentro una pozzanghera a infradiciarti le calze, oppure nel calore di un’estate che nemmeno sotto alle pale forza 4 dava tregua. La famiglia in montagna, tu in città al caldo, felice per loro, meno per quelle pale che girano inutili, il sonno che si appiccica al lenzuolo sul materasso, mentre le finestre aperte ti portano la strada in casa già dalle cinque del mattino. E alla fine ti alzi.

Si può fare anche a occhi aperti, questo gioco, e se riesce entri in un tunnel temporale che ricarica all’incontrario e come in un gioco di mille e mille combinazione continui a spostare date e priorità, perché nel 2012 quel luglio me lo ricorderò per tutta la vita, ogni birra bevuta e ogni sigaretta fumata, così come agosto e settembre, perché mettendo insieme anche gli spezzoni delle ore inutili, adesso, un pensiero veloce ti attraversa e dice che non sarai più disposto a perderne altro. E dicendolo ammetti in un retropensiero, fugace, che quel pensiero appena finito è solo menzogna.

Alla fine di questo piccolo gioco, lo consiglio davvero non sto scherzando, non ci sarebbe fine: perché vorrei raccontarvi di ogni giorno un particolare fino al primo di marzo del 2016.
Dal 13 ottobre del 2009. Al primo marzo del 2016. Oggi la piccola ha otto anni e mezzo e la grande va per gli undici. La casa diventa piccola, perché le dimensioni dei corpi cambiano, gli oggetti si moltiplicano, i libri che abbiamo comprato in oltre sei anni, i sassi rubati alle spiagge, i legni levigati dal mare, conchiglie, rametti e pigne e ogni altro bersaglio di chi soffre dell’essere raccoglitori seriali e accumulatori ostinati.

Questi pensieri, e questo gioco, mi è spuntato ostinato pochi giorni prima del primo marzo.

Poi quel giorno ho guardato, non senza commozione, un uomo che veniva rirpreso in diretta sul web mentre usciva da un carcere. Dopo oltre sei anni e mezzo per una condanna ingiusta, che puniva le idee. E quelle buone, peraltro, perché erano le idee che avevano portato alla fine della lotta armata in un paese d’Europa dopo oltre 50 anni di morte.

Arnaldo Otegi usciva di prigione, jeans, giaccone da marinaio blu e tuttto il carcere e i sei anni e oltre incisi sul volto, nelle rughe, nelle pieghe, negli angoli delle labbra. Deciso, subito, nelle prime parole a delimitare un discorso, a rilanciare un perimetro di azione per la sinistra basca cui ha dedicato, come altri e più di altri, tutta la vita.

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Le foto di Otegi che serra il pugno nel saluto compagno e i miei pensieri, i suoi pensieri che avrei voluto carpirgli in una intervista irrealizzabile: cosa hai pensi in carcere, cosa pensi per sei anni e mezzo, ogni giorno, quando sei condannato per aver disegnato la pace e ti tengono preso, prigioniero, costretto dentro uno spazio chiuso e limitato, controllato, le lettere censurate, la madre che muore e ti portano in manette e poi torni in cella nel tuo dolore rinchiuso, e il grande rotolo degli anni che se ne va con la vita, la politica, la storia che si stratifica e tu la guardi sempre da quella stanza, mentre io mi bagno le calze nelle pozzanfghere e mi prendo il sole nella cala francese, stasera ragazze spiedini sul barbecue. Chi gli ridà, penso, sei anni e mezzo di vita. Chi gli ridà anche solo un giorno. Un’ora con sua madre.

Arnaldo Otegi è uscito dal carcere di Logroño il primo marzo del 2016. Il 13 ottobre del 2009 era stato arrestato nell’operazione Bateragune, insieme ad altri compagni e compagne della sinistra basca, accusato di lavorare alla ricostituzione della dirigenza di Batasuna per ordini di Eta. Nonostante gli avvocati abbiano potuto dimostrare la pochezza delle accuse e l’infondatezza del legame con la formazione armata, allora ancora in attività, e nonostante il fatto che proprio i documenti oggetto di quella riunione fossero quelli che avrebbero poi spianato la strada alla rivoluzione copernicana della sinistra basca che ha portato alla fine delle attività di Eta, i magistrati spagnoli hanno condannato Otegi prima a dieci anni e poi ridotto la pena in terzo grado fino a sei anni e mezzo.

Il 5 marzo ero a casa. Voi dove eravate? Questa è facile, sono solo pochi giorni fa. Io ero a casa, ma ero anche ad Anoeta, nel velodromo di San Sebastian dove si è svolta la festa per il ritorno di Otegi, l’ongi etorri, il bentornato. Ha parlato, ha dimostrato di avere ancora carisma e le idee chiare, anche se uscire dal carcere e trovarsi dentro un vortice così veloce non deve essere facile.
Il carcere quasi mai è una risposta, penso. Il carcere per reati di opinione è odioso e ci vuole una forza interiore e una tenacia invidiabile per resistere, penso. O una grande rabbia per riuscire a sopravvivere all’ingiustizia.

Non importa condividere le sue idee in un caso di sequestro di vita come questo: ongi etorri Arnaldo Otegi, bentornato. Bentornato in questo giorno dopo giorno, finalmente libero, che possiamo anche scordarci, perché pieno di vita.

Il documentario e il dossier di naiz.eus

‘De Martutene a Logroño’ 2008-2016