Al palo della morte

Storia di un omicidio in una periferia meticcia

di Christian Elia

foto di Marcello Scopelliti

I luoghi possono nascere già lontani. Non lo diventano, lo sono sempre stati, prima ancora di esserci. Tor Pignattara, come tutte le ‘torri’ romane, è lontana, in un altrove che nel gergo popolare è il ‘palo della morte’.

Luoghi che vivono a prescindere, che cambiano nell’assenza di un’idea di pianificazione, che si sedimentano nonostante la liquidità che li ha immaginati. Ed è qui, in uno di quei posti che la definizione non-luoghi ha abusato per troppo tempo, che si svolge l’ultimo tratto della vita di Shahzad.

Estate 2014. Shahzad viene dal Pakistan, 28 anni. Gira male, ultimamente. Si è anche sposato, un figlio in arrivo, ma non c’è lavoro. E’ ferito, confuso. Gira per le vie di Tor Pignattara, che è Roma senza essere Roma, cantilenando versi del Corano. Come a invocare una via d’uscita.
Che si manifesta, sotto forma dei calci e dei pugni di un minorenne, aizzato da un padre infuriato con la vita.

Shahzad muore e Giuliano Santoro, con il suo libro Al palo della morte – Storia di un omicidio in una periferia meticcia, edito da Edizioni Alegre, nella collana Quinto Tipo, diretta da WuMing1, che raccoglie “oggetti narrativi non identificati”, gli rende un racconto.

Che è un esempio pungente di giornalismo narrativo, pur senza ricorrere al meccanismo classico che un lettore si aspetterebbe in questo senso. Restituire a Shahzad la sua dimensione umana, quella violentata dal lessico dei giornali, per cui anche da vittima non sei nulla più di un ‘extracomunitario’, un ‘pakistano’ per i più attendi, un ‘immigrato’, non basta.

In molti avrebbero approcciato la storia dando un nome alla vittima, raccontandola come siamo soliti fare con le ‘nostre’ di vittime, che hanno un passato, un nome, un volto, una famiglia, affetti e problemi, sogni e disperazioni. Santoro, invece, non si ferma qui.

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Contestualizza. Che nell’informazione di oggi, è operazione rivoluzionaria. Perché anche solo umanizzare la vittima, può essere operazione limitata, quando non si capisce tutto il tessuto sociale, nella sua trama delle strade del quartiere, nella visione d’insieme di quel quartiere in quella città, in quel tempo e in quel paese.

Ed ecco che la morte di Shahzad resta ancora di più come una ferita nel tessuto urbano che l’ha prodotta. Perché c’è un fascismo emergente, proprio in quartieri che erano ‘nidi di vespa’ durante l’occupazione nazista. Perché una parte di quel fascismo si è fatta per metà criminalità e per metà Stato, come racconta Mafia Capitale.

Perché Shahzad ci racconta di Tor Pignattara e di tutti gli altri pali della morte, dei coatti e di chi li ha saputi raccontare, mentre crescevano, soli e abbandonati, alla periferia degli anni Ottanta. E oggi sono diversi, meno caratteristici, sempre soli. Capaci di essere solidali con un assassino e il suo istigatore, più che con una vittima, solo perché chi ha ucciso gli somiglia id più

Ci sono anche i nuovi meticciati, che proliferano e sono capaci di essere solidali, perché sanno che nessuno se ne occuperà, fino alla prossima campagna stampa tra decoro e sicurezza, fino alle prossime promesse della politica. E che tenta di sopravvivere, di ridisegnarsi la giornata e la vita, partendo verso un centro che non esiste.
Santoro è davvero bravo nel seguire i fili invisibili che si dipanano da una notte, da un omicidio, da una storia. Li segue e li racconta, esplorando un quartiere e raccontando un quarto di secolo, a Roma, ma che profuma di altrove.

In questo percorso, Quinto Tipo è una collana da seguire, perché sta esplorando i confini del giornalismo narrativo con curiosità e profondità. E sempre più, nel tempo della ‘semplificazione’, c’è bisogno di complessità.