di Francesca Rolandi
E’ avvenuta poco alla volta la chiusura della rotta balcanica, quasi gradualmente, come se le cancellerie tastassero mano a mano i possibili effetti collaterali o le – flebili – reazioni dell’opinione pubblica.
Prima la porta si è chiusa davanti ai cosiddetti migranti economici, successivamente agli afgani, poi iracheni e siriani hanno iniziato ad ammassarsi in Grecia passando solo con il contagocce, finché le frontiere sono state sigillate.
Questo il risultato dell’accordo provvisorio tra Unione europea e Turchia, le cui trattative sono ancora da concludere ma che porterebbe la seconda a riaccogliere i profughi già arrivati in Grecia in cambio di lauti aiuti economici, l’annullamento dei visti per cittadini turchi e l’apertura di nuovi capitoli negoziali.
Il nodo dell’accordo, che pare ricalcare un teatro dell’assurdo, si basa sull’assunto che i profughi al momento in Grecia sarebbero respinti in Turchia da dove potrebbero fare domanda di asilo in un campo profughi, contando su un pronto meccanismo di ricollocazione da parte europea.
Un compromesso che fa storcere il naso all’Onu, suscita accuse di violazione della Convenzione sullo status dei profughi del 1951 da parte della società civile, ma viene salutato con ottimismo dai paesi europei.
Un ottimismo condiviso dai leader dei paesi della rotta balcanica che hanno tirato un sospiro di sollievo e si sono dichiarati soddisfatti di avere raggiunto finalmente un accordo concertato nella regione.
Indicativamente, la maggior parte dei media hanno cambiato i toni della narrazione dall’inizio della crisi. I profughi ora vengono chiamati migranti, in modo che sia più semplice respingerli, a testimonianza di come le definizioni plasmino un’identità.
Anche le opinioni pubbliche interne, che si erano dimostrate decisamente più solidali che nell’Europa centrale, paiono essersi abituate all’idea che si è dato e il tempo dell’accoglienza si avvicina alla fine.
Mentre la Macedonia è alle prese con la perenne crisi che contrappone i due maggiori partiti politici, alle sue porte si consuma quella che viene ormai comunemente definita “crisi umanitaria”, alla quale la sua polizia ha risposto con i gas lacrimogeni contro i profughi che tentano di sfondare le barriere. E’ la prima a fare il lavoro sporco, ma non è sola perché dietro di lei ci sono Serbia, Croazia, Slovenia e Austria.
Vienna ha dato origine alla reazione a catena, dichiarandosi pronta ad accettare un numero limitato di profughi su base giornaliera per poi provocare anche una crisi politica con la Grecia, che ha reagito con il richiamo dell’ambasciatore in risposta al suo mancato invito al vertice tra l’Austria e i paesi della rotta balcanica dove si sarebbero prese decisioni sulla pelle di Atene.
Inoltre, il coinvolgimento della regione nelle operazione di limitazione del flusso è testimoniato dal fatto che le forze di polizia dei paesi della rotta balcanica si trovavano già da settimane in Macedonia al confine con la Grecia per effettuare controlli comuni sui profughi.
La Slovenia è stata il primo paese a decretare la fine della rotta, dichiarando il 9 marzo che da quel momento solo individui muniti di visto d’ingresso avrebbero potuto fare ingresso nel paese. Nel paese delle verdi valli lo spettro dell’invasione dei migranti era da alcune settimane particolarmete ingombrante, fino a portare di recente la comunità della cittadina di Kranj a protestare compatta contro la possibilità di ricollocazione di sei minori stranieri.
Il governo croato ha di recente modificato la legge sul controllo delle frontiere introducendo la possibilità di inviarvi l’esercito in caso di crisi umanitaria e non è forse casuale che di recente sia stata fatta circolare la voce di un ritorno della leva militare in Croazia, pur non essendo ciò in alcun modo né razionale né sostenibile.
“Chi ci attacca?” hanno chieste provocatoriamente alcune associazioni della società civile. All’indomani del vertice con la Turchia il premier Tihomir Oreskovic, con il suo piglio manageriale, ha definito positivo per la Croazia e per i suoi vicini essere arrivati al risultati di 0 profughi.
Il premier serbo Aleksandar Vucic ha ricordato che chiudere le frontiere significa agire in accordo alle nuove regole europee e ha promesso di avere un approccio umano verso i migranti che rimarranno intrappolati nel paese per poi aggiungere che la Serbia non diventerà un parcheggio per i profughi. Per quello, infatti, c’è la Grecia.
Intanto i campi di transito, a Preševo, Šid, Slavonski Brod, che nei mesi in cui il meccanismo scorreva vedevano transitare diverse migliaia di persone al giorno, non contano più nuovi arrivi ma fanno i conti con chi è rimasto incastrato tra le maglie dei tempi.
A Slavonski Brod vi sarebbero ancora 400 profughi, detenuti in un’area nella quale le organizzazione umanitarie non hanno accesso, che attenderebbero di essere reinviati in Grecia.
A Idomeni si moltiplicano le migliaia di abitanti di una baraccopoli improvvisata di disperati – che toccherebbero le 14.000 persone – in attesa alle porte dell’Europa, mentre ve ne sarebbero almeno altrettante in tutto il paese. La Grecia ne esce umiliata e isolata nell’assorbire l’impatto di migliaia di flussi.
Schiacciati storicamente tra due poli, l’Impero austro-ungarico e quello ottomano, i Balcani occidentali di oggi sono ancora una volta contesi tra due modelli, ormai adottati dall’Unione Europea – quello ungherese di Orban e quello turco di Erdogan – e incapaci di pensare a modelli alternativi di accoglienza che pur avevano dato prova di funzionare, strappando i profughi ai traffici e alla criminalità. Anche in questo sono un puro specchio dell’Europa in crisi.