Abusi in divisa: attenzione europea

ACAD porta al Parlamento Europeo l’anomalia italiana delle violenze compiute dalle forze dell’ordine. E rimaste impunite. Intervista con Ilaria Cucchi

di Valerio Nicolosi, da Bruxelles

In un paese come l’Italia in cui non esiste il reato di tortura, il tema degli abusi in divisa è purtroppo sempre attuale. Senza dover tornare troppo indietro con la memoria, a quando militanti anarchici cadevano dalle finestre della questura di Milano, possiamo ricordare che solo 15 anni fa a Genova ci fu, secondo Amnesty International, “La più grande sospensione dei diritti democratici, in un paese occidentale, dalla fine della II guerra mondiale”. Da Genova 2001 a oggi ci sono stati molti altri casi, alcuni sconosciuti altri divenuti famosi per la tenacia dei familiari che non hanno accettato versioni di facciata sulla morte dei loro cari e hanno deciso di chiedere verità e giustizia. Così ACAD., Associazione Contro gli Abusi in Divisa, composta da attivisti e familiari delle vittime, ha ricevuto udienza al Parlamento Europeo di Bruxelles presentando il rapporto “Anomalia Italia” grazie all’iniziativa di Eleonora Forenza, eurodeputata dell’Altra Europa – GUE.

“Il rapporto racconta tutti gli abusi di cui siamo a conoscenza, siamo qui per alzare l’attenzione di allerta democratica per questa che continua ad essere una grande anomalia per l’Italia, lo stato invece di chiedere scusa alle vittime degli abusi delle forze dell’ordine e ai loro familiari intavola processi contro le vittime, mette alla gogna i familiari stessi, crea un sistema che offusca sempre di più la verità e la giustizia che questi casi richiedono”, racconta Luca Blasi, attivista di ACAD e membro della delegazione.

Tra i familiari c’è anche Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, morto nella sezione penitenziaria dell’ospedale Sandro Pertini di Roma.

Quanto è importante l’audizione di oggi per ACAD e per tutti i familiari?

“Per noi è importantissima, è un momento storico nel quale una delegazione di familiari delle vittime di stato esce dal silenzio e dall’indifferenza che purtroppo spesso caratterizza i nostro paese e le nostre istituzioni. Vogliamo denunciare qualcosa che ci accomuna e che avviene con meccanismi e dinamiche che sono sempre le stesse, ovvero quelle del silenzio in cui ci vogliono mettere un istante dopo il verificarsi delle nostre vicende, per fare in modo che tutto finisca lì e che si volti pagina come se niente fosse.

Quello che è accaduto a me e a tante altre persone deve a servire anche a tanti altri, perché noi siamo riusciti ad avere un’audizione al Parlamento Europeo ma ci sono tante altre storie delle quali nessuno di noi sentirà mai parlare e che troppo spesso si svolgono nell’indifferenza generale: per questo è importantissimo uscire dall’Italia e poter denunciare quello che ci è accaduto”.

A proposito di queste tante storie sconosciute, dal 2000 a oggi, nelle carceri italiane ci sono state circa 3.500 morti tra omicidi e suicidi, quindi il tema del “controllo del controllore” diventa centrale per voi,
quanto è importante raccontare e denunciare queste realtà in Europa?

“In un contesto in cui l’Italia continua a ricevere sanzioni dall’Europa e a far finta che il problema non esista, direi che è fondamentale essere qui. Oggi so bene di cosa stiamo parlando, so bene cosa sono e come funzionano le carceri italiane, ma fino a 6 anni fa lo ignoravo o lo sapevo superficialmente, avevo sentito di brutte storie dentro il carcere come tutti ma ascoltavo in maniera superficiale perché fin quando non ci si passa per qualche motivo non si può comprendere bene quale realtà terribile e disumana siano quei luoghi.

Le carceri italiane sono la realtà nella quale mio fratello, Stefano Cucchi di 31 anni, è potuto morire dopo essere stato posto in isolamento, lontano da occhi indiscreti, nonostante questo in quei 6 giorni in cui è stato detenuto mio fratello non era solo, anzi. Stefano è entrato in contatto con circa 140 persone che hanno potuto vedere il degenerare delle sue condizioni dopo il violentissimo pestaggio subìto da parte dei carabinieri pochi minuti dopo l’arresto. E queste stesse 140 persone non hanno fatto assolutamente nulla per interrompere quella catena di eventi che lo hanno portato alla morte in quella maniera terribile in cui io e i miei genitori lo abbiamo rivisto sul tavolo dell’obitorio. Queste sono le carceri italiane”.

Negli ultimi mesi ci sono state novità sul processo per Stefano, il processo d’appello si dovrò rifare da capo, credi che finalmente la verità possa venire a galla?

“Mi auguro di si, però non posso non fare una riflessione: Quanta fatica ci è voluta? Quanta fatica ancora ci vorrà? Le nostre istituzioni cosa chiedono a famiglie come la mia?

La verità e la giustizia sono cose che spetterebbero di diritto dopo aver subìto un sopruso così grave e invece succede l’opposto, le famiglie vengono isolate e lo stato diventa il nostro nemico costringendoci a rimboccarci le maniche e ad intraprendere delle vere e proprie battaglie per arrivare alla verità, che per noi è indispensabile per poter andare avanti con le nostre vite, ma che puntualmente ci viene negata.

Inseguire la giustizia per un comune cittadino è molto difficile, significa dare nomi e cognomi a persone che a vario titolo hanno avuto dei ruoli e delle responsabilità nelle nostre vicende, significa molto spesso mettere in discussione un intero sistema e ammettere che proprio dentro quel sistema qualcosa non ha funzionato o non funziona, ma per lo Stato questo è inaccettabile e per questo ci viene negata la verità e ci viene chiesto di farcene una ragione e di voltare pagina come se niente fosse. Come però è inaccettabile per lo Stato riconoscere che ci sono delle falle al suo interno, per noi è inaccettabile voltare pagina e per questo continueremo a chiedere verità e giustizia e a denunciare tutto questo”.

Tu, Lucia Uva, sorella di Giuseppe e Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, siete il simbolo di queste lotte. Essere donne credi faccia la differenza nella tenacia che si ha nella ricerca della verità?

“Credo di si. L’importanza che noi diamo ai nostri affetti è quello che ci dà la forza di andare avanti e di fare in modo che quel dolore non ci paralizzi, ma possa servire in qualche modo per qualcun altro. Ricordo il sogno che fece il mio migliore amico pochi giorni dopo la morte di mio fratello. Stefano gli apparve in sogno e gli disse: «Di a mia sorella di andare avanti, dille che probabilmente non saprà mai quello che mi è successo e forse non avrà mai giustizia per la mia morte ma dille di andare avanti perché quello che farà per me servirà per molti altri». In quel momento non potevo comprendere il significato di quelle parole ma oggi so perfettamente quello che Stefano voleva dirmi.

Oggi se si sente tanto parlare di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini, Giuseppe Uva, ma ci sono tante, tantissime, altre storie che si svolgono nel silenzio perché non hanno una famiglia alle spalle o perché la famiglia sceglie il lutto nel chiuso dei propri affetti, ovvero nel modo più naturale che ci sia. Per chi invece ha scelto di battersi questo non succede, devi rimboccarti le maniche e andare avanti perché non c’è tempo per piangere”.

In Italia quindi è molto difficile scardinare il meccanismo di autodifesa e autoassoluzione dello Stato e in questo senso, conclude Eleonora Forenza, “l’iniziativa è importante per portare all’attenzione del Parlamento Europeo questa anomalia e lo faremo utilizzando tutti gli strumenti che abbiamo, coinvolgendo le commissioni competenti presentando un’oral question. Saremo la voce di queste persone all’interno delle istituzioni”.