TTIP: quali benefici?

Si è concluso da un mese il dodicesimo round di negoziati per il TTIP. Sebbene i dettagli non siano noti, un’analisi macroeconomica di quanto disponibile pone numerosi dubbi sui benefici promessi

di Clara Capelli

Quando si parla di libero mercato bisognerebbe sempre chiedersi: libero per chi? Già, perché il grande non detto, contrario agli interessi costituiti e ai luoghi comuni ben radicati nella mente dei più, è che in economia raramente (o forse sarebbe meglio dire mai?) il mercato lascia sul campo solo vincitori.

A questo servirebbero le regole, a proteggere i più deboli, a dare giustizia, perché lo stato di natura, la “legge della giungla”, non lascia liberi la nostra creatività e la nostra iniziativa, ma più spesso finisce per premiare privilegi e posizioni di potere.

Teniamo questo bene chiaro in mente quando ragioniamo di Transatlantic Trade and Investment Partnership, meglio noto come TTIP, il trattato economico tra Unione Europea e Stati Uniti.

Su quanto sia controverso questo accordo sono già state spese moltissime parole, ma, sintetizzando, i nodo cruciali riguardano l’eliminazione di una serie di dazi e barriere non tariffarie tra i due blocchi e il meccanismo dell’Investment-State Dispute Settlement (ISDS) per la risoluzione dei conteziosi tra investitori e stati.

Se da una parte queste misure vengono giustificate come fondamentali per offrire nuove opportunità economiche a produzione, commercio e investimenti, dall’altro è forte la preoccupazione che queste possano ridurre la qualità dei prodotti a scapito dei consumatori e ridurre ulteriormente la sovranità nazionale in nome del profitto privato, con serie conseguenze per nulla trascurabili sul bene comune.

Il punto è sempre lo stesso, ossia la visione dominante – e in fondo condivisa dal senso comune – che il privato sia il motore della crescita e non debba essere costretto da una camicia di forza di regole al fine di potere esprimere pienamente il proprio potenziale.

Abbattere dazi e soprattutto le barriere non tariffarie (strumento principale della politica commerciale tra UE e USA perché, è utile precisarlo, a livello di dazi il commercio tra i due blocchi è già relativamente liberalizzato) servirebbe a intensificare gli scambi, aprendo nuove opportunità per i produttori e riducendone i costi di produzione.

“Barriere non tariffarie” è infatti un termine per indicare tutti quegli standard qualitativi cui i beni importati dall’estero devono conformarsi. Uniformare tali standard semplificherebbe la vita a tutti con grandi benefici da ambo i lati, così sia la UE sia gli USA magnificano l’importanza del TTIP sui rispettivi siti relativi al trattato. Dimenticandosi però di precisare che se a livello superficiale e “di pancia” questo discorso può tenere, un’analisi più dettagliata pone non pochi dubbi.

Innanzitutto, gli standard qualitativi non sono capricci statalisti, ma servono a tutelare sia i consumatori sia a garantire condizioni di produzione che rispettino l’ambiente e i lavoratori.

Purtroppo questa riflessione trova pochissimo spazio nella documentazione disponibile sui negoziati ed è abbastanza difficile capire sulla base di quali criteri altri dall’interesse particolare verranno armonizzati tali standard. Inoltre, queste misure sono anche funzionali al mantenimento della produzione e dell’impiego domestici, al fine di non ingaggiare una competizione che non migliora la qualità dei prodotti, ma che piuttosto si traduce in una lotta al contenimento dei costi, salari inclusi.

Per quanto riguarda invece l’ISDS, è importante sapere che si tratta di un meccanismo di arbitrato internazionale largamente utilizzato soprattutto negli ultimi venti-trent’anni, ormai previsto da tutti i trattati bilaterali e multilaterali di commercio e investimento. Il principio fondante, semplificando, intende offrire agli investitori stranieri in un Paese uno strumento “neutro” per la risoluzione di eventuali dispute. “Garantire un business environment attrattivo”, questa è la chiave. Altrimenti non c’è incentivo, se non c’è incentivo non c’è investimento, se non c’è investimento non c’è crescita.

Tutto ragionevole sulla carta, eppure sono numerosi i casi di arbitrato internazionale in cui la big company di turno è riuscita a spuntarla in nome dei danni economici subiti per via di una qualche politica pubblica. Perché questo è il problema a cui pochi pensano: il profitto e i profitti attesi si possono calcolare, misurare, stimare e mettere a contratto con una certa facilità, ma ben più complesso è farlo con il bene e la salute di comunità, categorie lavorative e ambiente. E in sede di arbitrato come si fa?

Quando si parla di libero mercato negoziando trattati economici occorrerebbe andare oltre la tecnica e la teoria dominanti per cui quest’ultimo è indiscusso strumento di benefici diffusi. Occorrerebbe prendere in considerazione altri punti di vista, altri strumenti d’analisi.

Ma il TTIP (come tanti altri trattati, a cominciare dal recente Trans-Pacific Partnership, TPP, tra USA e altri Paesi del Pacifico) è l’ennesimo esempio della tecnica che prevale sulla politica, sull’imposizione delle idee dominanti rispetto all’importanza della discussione e del confronto. Con esiti tutt’altro che “neutri”.

In primo luogo, la tecnica ha spodestato la politica nel non rendere trasparente il processo negoziale. Cosa si sta discutendo di preciso durante i negoziati del TTIP non è noto. A dispetto delle numerose pressioni fatte, è possibile infatti accedere soltanto alle dichiarazioni finali – riassunti generici di una manciata di pagine – dei diversi round negoziali e a schede informative piuttosto vaghe in cui si sottolinea la posizione favorevole dei negoziatori a liberalizzare commercio e investimenti.

Il tutto calcando la mano sui vantaggi che il TTIP apporterebbe. Di problematiche, categorie vulnerabili e meccanismi di compensazione non c’è traccia alcuna. Eppure sarebbe doveroso affrontare la questione di chi potrebbe “perderci” e di come si potrebbe intervenire. Non si tratta di ideologia né di estremismo di sinistra, è una questione legittima di cui nessun negoziatore parla.

In secondo luogo, la tecnica porta avanti il suo discorso unico sul TTIP facendo riferimento a quattro modelli economici che concordano nel considerare il trattato come un utile motore di crescita sia per l’UE sia per gli USA. Ma non spiega la base teorica e metodologica su cui questi modelli sono costruiti. Un ottimo e puntuale studio del 2014 promosso dall’Università di Kassel (Germania), The Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP): Implications for Labor, bene illustra infatti come tutti questi modelli riposino su assunzioni tali per cui la conclusione non può che essere a favore del libero mercato.

Poco spazio (ma molta ostilità) ha invece trovato il cosiddetto Capaldo Study, un lavoro dell’economista statunitense Jeronim Capaldo che giunge invece a risultatati tutt’altro positivi per le economie europee in generale (e non essendo un’unione fiscale l’UE poco potrebbe per ribilanciare la situazione tra vincitori e perdenti) così come per quella americana.

Gli accordi economici non sono mai vantaggiosi per tutti. A questo serve la politica: a chiedere diverse tecniche e teorie che sappiano fare fronte a queste sfide economiche e a trovare soluzioni perché i vantaggi dei vincitori siano condivisi anche fra chi rimane indietro. Trasparenza e dibattito e proteste sono dunque necessari perché i cittadini europei e americani si possano riappropriare del processo decisionale rispetto alla politica economica. Altrimenti sarà solo una guerra commerciale tra grandi società private di cui in tanti rischiamo di fare le spese.

 

(Questo articolo 

riflette il punto di vista dell’autrice, 

espresso a titolo personale)