La guerra di Daesh e la teoria dei giochi

Di guerre asimettriche, scacchi, go e sfide tra uomini e computer

di Bruno Giorgini

Ascolto qualche generale in pensione che dice all’incirca: basterebbe una brigata di 20.000 uomini per sbaragliare il Califfato nero. Quando si dice chiacchierare a vanvera. Poi altri parlano di guerra asimmetrica per spiegare le difficoltà che molti paesi, non dei meno, dagli USA alla Russia, con Francia, Inghilterra e qualche altro di rincalzo, incontrano nel tentativo di sconfiggere i jihadisti in Siria come in Irak, in Libia come in Nigeria e nell’Africa subsahariana, per non dire dei talebani in Afghanistan, e migliaia di combattenti altrove nel mondo. Dove per asimmetrica s’intende, par di capire, il fatto che il movimento jihadista usi a man bassa il terrorismo su scala globale, dalle città europee e occidentali New York, Parigi, Londra, Madrid a quelle dell’antico terzo mondo Baghad, Tunisi, Mumbay, Peshawar ecc.. Non voglio però infilarmi nel ginepraio delle molte guerre civili e interstatali che s’intersecano e sovrappongono in Mesopotamia, in Medio Oriente, in Nord Africa ecc.. bensì focalizzare l’attenzione su Daesh usando la teoria dei giochi, ovviamente non cooperativi.

La guerra, più precisamente la teoria del conflitto armato, è un pensiero della forza che si articola su due assi: la strategia e la tattica. Su questa partizione si sono scritti volumi, trattati, articoli in quantità enorme. In genere l’autore di riferimento per l’Occidente è von Clausewitz col suo “Della Guerra” a cavallo del 1800, mentre in Oriente si studia Sun Tzu che scrisse “L’arte della guerra”, probabilmente un autore collettivo che duemilatrecento anni fa mise nero su bianco la saggezza delle mille guerre che traversavano la Cina. Per noi schematicamente la strategia si sviluppa su uno spaziotempo più esteso e complesso con uno spettro di obiettivi a lungo range, mentre la tattica impegna azioni locali e parziali su porzioni dello spaziotempo limitate con una geometria semplice. Diciamo nel primo caso una geometria frattale e/o piuttosto una topologia – una geometria della gomma – nel secondo una geometria euclidea.

Militanti di Daesh – Foto: Day Donaldson via Flickr in CC

Un altro testo di riferimento è “L’arte occidentale della guerra” di Victor Davis Hanson dal significativo sottotitolo “Descrizione di una battaglia nella Grecia classica”. Perchè la prima, e decisiva, narrazione epica è l’Iliade da cui tutto poi si dipana. Si va dal valore di Achille e degli altri supereroi che si combattono faccia a faccia, all’assedio della città di Troia, dove vive il re nemico che deve essere abbattuto, con l’astuzia del cavallo inventata da Ulisse che penetra nelle difese talchè il nemico imprevisto e imprevedibile insorge spaventoso nel cuore della città quasi come gli alieni da un Buco Nero. La guerra di Troia, conflitto per la donna e per il potere, il potere sulla donna fuggita dal marito per amore, il libero amore, il potere sulla donna di cui fu sempre questione in ogni guerra, fino agli stupri etnici nella ex Jugoslavia e alla riduzione in schiavitù delle giovani ragazze che finiscono nelle mani dei neri militanti del Califfato, e non solo le giovani.

Se vogliamo un modello che rappresenti questo tipo di guerra, e quindi di strategia, il pensiero va del tutto naturalmente agli scacchi.

Due avversari si affrontano su una scacchiera quadrata formata da case bianche e nere alternate, 8 per lato. Su questo territorio si muovono 16 pezzi bianchi e 16 neri, pedoni, alfieri, cavalli, torri, regine e re scontrandosi per la vittoria che consiste nel ben noto scacco matto, quando il re è sotto mira senza più alcuna casella dove poter sfuggire all’attacco. Ogni pezzo si muove e mangia i pezzi avversari, i nemici, secondo uno spettro d’azione organizzato gerarchicamente, dalla potente regina all’umile pedone, il fantaccino che avanza un passo alla volta, attraverso l’alfiere in affilata diagonale, la torre in parallelo lungo i lati, il cavallo che scarta zigzagando, mentre il re che deve essere abbattuto ha una mobilità limitata alle 4 case immediatamente adiacenti.

In questo gioco la strategia ha un unico e chiaro obiettivo finale, lo scacco matto al re. Poco importa quanti pezzi avversari mangi, o sacrifichi, tutto deve convergere sul re per abbatterlo.

È lo schema anche dell’insurrezione bolscevica per la presa del Palazzo d’Inverno. Gli scacchi sono quindi fondati sulla logica determinista di causa e effetto, e quanto più in profondità ragioni, nel senso della capacità di prevedere gli effetti delle tue mosse e le contromosse dell’avversario su un tempo lungo, tanto meglio è. Infine gli scacchi sono un gioco a numero finito, 64 caselle della scacchiera con 32 pezzi in 1.044 differenti posizioni. Claude Shannon, matematico, ha stimato il numero di partite che si possono svolgere giocando a scacchi. Questo numero vale 10.120 ; per avere la percezione di quanto è grande, si pensi che il numero di particelle elementari presenti nell’universo osservato viene stimato in 1.085.

Seppure enorme, si tratta comunque di un numero finito per cui si può, avendo sufficiente potenza di calcolo e abilità informatica, condurre la cosiDdetta “partita perfetta” esplorando tutto lo spettro delle possibilità a ogni passo, perché nella logica deterministica il caLcolatore elettronico, il computer, è imbattibile. Per questo Kasparov l’11 maggio del 1997 perse con Deep Blue, il supercomputer messo a punto per la bisogna da IBM. E assumendo l’abilità nel gioco degli scacchi come parametro d’intelligenza – il che non è – si potrebbe dedurne che la macchina fu più intelligente dell’uomo con grande scandalo dei benpensanti.

Se ora solleviamo gli occhi dalla scacchiera per volgerli alla guerra di Daesh, anche una osservazione superficiale permette di dire che gli adepti del Califfo proprio non giocano a scacchi.

Quando la morsa dei nemici sembra stringersi su Raqqa, la capitale in Siria di Daesh, ecco che invece di organizzare una strenua resistenza i miliziani sembrano eclissarsi per ricomparire in forze a Sirte in Libia, a qualche migliaio di chilometri di distanza percorsi non si sa come e con che mezzi. Il fatto è che c’è il miliziano di nero vestito il quale si esibisce per i video di propaganda e quello – la stessa persona – che si muove in abiti normali confuso con tutti gli altri abitanti, i jiahdisti praticando correntemente l’arte del mimetismo – e inoltre ci sono stati come la Turchia che favoriscono queste migrazioni terroristico guerrigliere, mentre bloccano i profughi, le due facce della stessa medaglia.

Daesh non ha un campo d’operazioni limitato quindi con condizioni al contorno che lo definiscono; Daesh, o meglio il movimento jihadista, si muove sull’intera superficie sferica del pianeta, ovvero senza limiti, comunque ci si incammini su una sfera non s’incontrano mai bordi e frontiere, il che significa un numero infinito di possibili traiettorie. In altri termini la Jihad pratica la deterritorializzazione, quasi avesse letto e studiato “les Mille Plateaux” di Deleuze e Guattari. Daesh ha la stessa libertà d’azione globale della finanza internazionale, e dei mercati cosiddetti; d’altra parte non a caso partecipano e contribuiscono in vario modo al Califfato i mercanti di esseri umani, i mercanti di petrolio, i mercanti di armi, i mercanti di anime – i preti neri – e la congerie di poteri criminali che li contorna e nutre, quando non ne è nutrita, nonché certamente alcune centrali dei mercanti di danaro – banche, istituti finanziari, hedge funds.

Il movimento jihadista non ha alcun punto fisso irrinunciabile, non c’è il re cui dare scacco matto, sia una capitale sia un uomo. Nè alcuna forma irrinunciabile, statale politica o militare.

Quando gli USA uccisero Bin Laden, Al Qaida era già un’altra cosa – ecco che l’arte della mimesi diventa metamorfosi – mentre Osama già non era più leader di niente – se mai lo fosse stato, e la rete non fu quasi toccata dalla morte del suo supposto capo. Adesso possiamo chiederci se esiste un gioco che, pur non isomorfo alla strategia jihadista, esibisca almeno alcune analogia con questa. A nostro avviso questo gioco esiste, è il Wei-ch’i, nella dizione cinese, Go in quella giapponese.

Il Go è giocato da due avversari che collocano alternativamente pedine (le pietre) nere e bianche sulle intersezioni vuote di una “scacchiera” (il goban) dotata di una griglia 19 × 19. Si tratta di occupare la porzione di spazio maggiore, rinchiudendo l’antagonista in aree sempre più ristrette fino all’impossibilità di muoversi. L’obiettivo è il controllo dello spazio attraverso la dinamica, senza alcuna gerarchia tra i pezzi – le pietre- e neppure tra le partizioni spaziali. Il numero di combinazioni possibili nel Go vale circa 2 × 10170, molte più di quelle degli scacchi.

L’ex segretario di stato Kissinger, tra gli altri, ha notato che la lunga marcia di Mao può essere letta come una applicazione del Wei-ch’i, una strategia che può riassumersi nell’arte di vincere pur essendo più deboli, in questo senso indicata come “asimmetrica”. In altri termini, se gli scacchi sono un gioco gerarchico e logico, più precisamente a logica bivalente per cui lo scacco matto c’è o non c’è, il Go è un gioco fondato su una geometrodinamica e/o topologico dove gli agenti – le pietre – sono eguali, tutti sacrificabili e intercambiabili. Se vogliamo il Go è sotteso da una cosiddetta logica fuzzy, dove non funziona l’alternativa binaria tra vero o falso, 0 oppure 1, ma il grado di verità di una proposizione scorre con continuità tra 0 e 1. Per esempio una difficoltà del gioco consiste nel capire, osservando l’apparente disordine delle pietre disposte sul campo, se le proprie pietre siano vive, morte, o in uno stato critico intermedio, cioè vive e morte insieme, come il famoso gatto di Schrödinger, che rinchiuso in una scatola non è né vivo né morto, fin quando la stessa non venga aperta e l’osservatore non ci butti un occhio.

Ora tornando sul campo di battaglia reale, sarebbe da discutere se gli eserciti che combattono Daesh stiano ancora giocando a scacchi oppure se in qualche modo cerchino di inglobare il Go nel loro apparato strategico, ma questo andrebbe oltre i nostri scopi.

Invece è interessante ricordare che, batti e ribatti, il 9 marzo di quest’anno 2016 un computer, con un apposito software messo a punto da alcuni ricercatori di Deep Mind (Alphabet, ex-Google), ha sconfitto pur di misura per la prima volta il miglior giocatore di Go al mondo, il sudcoreano Lee Sedol.

Dopo questo primo incontro seguiranno altre quattro partite, che potrebbero anche ribaltare l’attuale risultato, ma ormai il mito dell’invincibilità del giocatore umano rispetto al calcolatore, fondato appunto sul fatto che il computer si basa su una logica binaria (0,1) e il Go su una logica fuzzy, è stato incrinato seppure ancora non crollando, come invece avvenne per gli scacchi nello scontro tra Kasparov e Deep Blue.

PS: la sfida è finita 4-1 per la macchina che ha sbaragliato il campione umano Sedol, gettando nello sconforto – se non nella disperazione – tutti gli adepti dell’idea che il Go sia non rigidamente programmabile, ma luogo della fantasia e imprevedibilità tipicamente umane, rappresentativo della filosofia taoista, che però pare essere poco efficace contro la ferrea logica algoritmica e la potenza di calcolo del computer, per quanto sotteso da un’algebra booleana binaria (0,1).

 


In apertura, una foto di Jotam Trejo tratta da Flickr in CC