Gli stranieri in casa a Gerusalemme

Una narrazione collettiva,
tante voci, molti linguaggi, un’unica città

di Filippo Landi

Ho vissuto a Gerusalemme dal 1 settembre del 2003 al 1 settembre 2014. Undici anni, dei quali ben nove trascorsi a Gerusalemme insieme alla mia famiglia e con Nancy, la nostra, non dimenticata, collaboratrice domestica di nazionalità filippina.

E’ stato un lungo periodo, insolito per i tempi, spesso incalzanti, di un giornalista. Un periodo, soprattutto, vissuto attraverso gli occhi del giornalista, ma anche del padre di famiglia. Questo cambia e non di poco lo sguardo che si ha di Gerusalemme.

Un pellegrino che passa da Gerusalemme, ma anche un giornalista che vi sosta per qualche settimana hanno necessariamente una visione parziale. Io ho avuto la fortuna di vedere di più, cose belle ed anche cose brutte. Partiamo dalle prime.

Innanzitutto, lo sguardo dolce e la grande tenace delle suore salesiane della Casa di Musarara, che gestiscono l’asilo che anche Francesco ha frequentato. Un centinaio di bambini, tutti palestinesi che abitano a Gerusalemme, per metà musulmani e per metà cristiani.

Quando Francesco è tornato a casa con la piccola lampada della festività musulmana del Ramadan ci siamo stupiti. Suor Milena, la direttrice dell’asilo, ci ha spiegato che a scuola i bambini cristiani imparano a costruire il Fanus, la lampada del Ramadan, e quelli musulmani il presepe. E’ un esempio, solo un esempio, di una convivenza buona tra cristiani e musulmani, che abbiamo scoperto vivendo a Gerusalemme.

Un’altra cosa, questa volta brutta, l’abbiamo imparata ed ha segnato la nostra esistenza: a Gerusalemme, abbiamo scoperto, c’è una ingiustizia che pervade la città e soprattutto i comportamenti di chi ha il potere in città. I palestinesi, più di 250mila in città, sono in realtà degli stranieri a casa loro. Le autorità civili, amministrative e di polizia degli israeliani fanno di tutto per rendere complicato il vivere quotidiano dei palestinesi, nella speranza che si decidano ad andare via.

Davanti alla loro resistenza , che dura da quasi cinquanta anni, ricordo lo stupore anzi l’ammirazione di un mio amico ebreo ed israeliano. E’ vero è uno dei pochi israeliani a pensarla così, ma era lui a riscattare se stesso e la storia degli ebrei, attraverso il suo sguardo limpido sulla realtà, anni di inutili sopraffazioni compiute a Gerusalemme. Quando Papa Francesco, in Africa, ha aperto la prima porta santa, pronunciando insieme le parole misericordia e giustizia, parlava- io ho pensato – anche ai palestinesi, agli israeliani e tutti noi che attraversiamo Gerusalemme.

Come esiste l’ingiustizia, così per trovare la pace bisogna passare attraverso la misericordia e la giustizia: questo mi è venuto di pensare. Eppure ci sono città e regioni, fuori Gerusalemme, dove si vive ancora peggio. Anche questo ho imparato in quei lunghi undici anni.

Neppure il trascorrere del tempo potrà cancellare il ricordo della miseria di tanti villaggi palestinesi ed il puzzo delle immondizie bruciate che ti avvolge quando vai a Gaza. Negli ultimi due anni della mia permanenza ho scelto di vivere a Betlemme. Volevo condividere l’esperienza di tanti pendolari che si recano a Gerusalemme a lavorare. Io in automobile, loro a piedi e poi in autobus.

E proprio a Betlemme ho incontrato una persona, Padre Severino, polacco, francescano e ottimo cuoco. Quando la sera, stanco, tornavo a Betlemme e la cucina della casa albergo era chiusa, lui si alzava dalla poltrona e andava a cucinare per me. Ho sempre pensato, vedendolo, che la Chiesa realmente missionaria si veste anche della tonaca sporca di sugo di un francescano venuto da lontano.