Ricordi di una pace murata

Una narrazione collettiva, tante voci, molti linguaggi, un’unica città

Di Gianni Vaggi

Era da poco passata la mezzanotte del 6 novembre 1996 dall’aeroporto di Tel Aviv, finalmente ero arrivato a Gerusalemme. Il taxi scendeva da French Hill verso le mura illuminate della città vecchia, lungo la strada Numero 1 quella della Green Line del 1949. Arrivati di fronte alle mura, ho chiesto al taxi di fermarsi.

Erano tanti anni che desideravo essere a Gerusalemme, avevo già incontrato molti amici e colleghi palestinesi, ma sempre in Europa. Il primo era stato Sari Nusseibeh per una conferenza a Pavia agli inizi della prima Intifada.

Quella notte è stata la prima di molte volte in cui non ho resistito al fascino di quelle mura: bellissime, imponenti ma anche discrete di notte. Non così di giorno con quel sole che le colpisce e le sferza e che le rende di un bianco ocra quasi irreale. Eppure al sole resistono.
E’ la pietra di Palestina, non la puoi descrivere o almeno io non ne sono capace.

Ero in Palestina per una grande conferenza del PEACE Programme – l’acronimo sta per Palestinian European Academic Cooperation in Education – un network di decine di atenei europei e non solo nato nel 1971 con lo scopo di aiutare le università palestinesi chiuse durante la prima Intifada.

La conferenza si teneva all’Università An-Najah a Nablus e l’organizzazione locale era curata da Rami Hamdallah, che poi sarà Rettore di An-Najah e che da qualche tempo è il Primo Ministro Palestinese. Più di duecento delegati da tutte le parti del mondo, Arafat ad inaugurare la conferenza. Rabin era stato assassinato un anno prima e Netanyau era già al governo, eppure si respirava ancora l’atmosfera di ottimismo degli accordi di Oslo. Certo ora dovremmo dire la grande illusione.

In quel Novembre 1996 non pensavo che negli anni successivi sarei tornato così di frequente in Palestina e a Gerusalemme.
E vorrei ricordare tre momenti in particolare.

Ricordo quando alla fine degli anni Novanta la collina di Jabal Abu Ghneim, fra Gerusalemme e Betlemme, aveva sulla cima un boschetto di pini e di cipressi: la pietra giallo chiara con un bel verde scuro sul cucuzzolo. Ora quella collina è diventata l’insediamento di Har Homa.

Ricordo un arrivo a Gerusalemme con mio figlio Marco all’inizio di Yom Kippur del 2005, al tramonto quando il sole ormai si calma. Soldati da tutte le parti, verso la porta di Damasco nella Città Vecchia, diciotto anni con i loro fucili in spalla e mia figlio che capisce che hanno la sua età e che sono parte di una cosa che ha le sembianze di uno strano e non bel videogioco, ma che purtroppo videogioco non è. E poi i campi profughi di Betlemme, la città vecchia di Hebron: altri giovani, tristi a camminare su e giù senza una meta. Alla sera mio figlio, quasi sconvolto, mi dice: ma questo è un luogo di matti, bisognerebbe fare A, B, C. E aveva ragione, ma quegli A, B, C, non ci sono neppure ora.

Ricordo i giorni della Seconda Guerra Irachena nel 2003 e la frase che mi disse Ahmed, un amico palestinese tassista a Gerusalemme e che vive a Wadi el Joz.
“George W. Bush vuole cambiare il Medio Oriente, il Medio Oriente cambierà ma non come pensa George W. Bush”.

Poche settimane fa, Vera Baboun, sindaco di Betlemme in visita a Pavia, ci ha detto: “quando una città è murata è la pace ad essere murata”. Non sono le mura di Gerusalemme a spaventare, racchiudono una storia plurimillenaria che è patrimonio dell’umanità. Ma il muro che circonda Betlemme e la separa da Gerusalemme, invece, ha già più di dieci anni.