Battesimo a Gerusalemme

Una narrazione collettiva, tante voci, molti linguaggi, un’unica città

di Laura Silvia Battaglia

Era uno di quei viaggi fatti con persone che non avevano molto in comune tra loro, se non il giornalismo. L’idea di andare a Gerusalemme per carpirne le sue contraddizioni, umori, ansie, guerre interne.

Il classico battesimo del fuoco di chi sogna di fare reporting in Medio Oriente e si confronta con il bubbone più puzzolente, il groviglio più mostruoso di tensioni che annichiliscono poi, a distanza di anni, il corrispondente scafato che deciderà di non scriverci mai più una riga perché ne ha viste troppe e le ha viste tutte diverse.

E però noi eravamo lì, a farci battezzare in questo Giordano di luce battente, spersi tra le faglie del lungo muro, in una sorta di gita dell’orrore alla ricerca di scampoli di inferno in terra. Li trovammo, ma non nei luoghi solitamente deputati al “giro turistico” per gli amanti della Terra Santa e nemmeno per coloro che si tatuerebbero la bandiera palestinese senza discrimine su ogni centimetro di pelle.

Li trovammo vicino alle supposte fondamenta del Palazzo di Davide, a Silwan, Est Gerusalemme. Un quartiere che non gli daresti un baiocco, con le case abbarbicate a saltare sulla collina in omaggio all’incompiuto edilizio; torrette con bandiere israeliane issate orgogliosamente tra selve di telecamere puntate sulla strada e uomini con la colt alla cintola come gli sceriffi del Mid-West; curve a gomito che nascondevano oasi di ortodossia ebraica; terrazzini senza porte e finestre dove le donne palestinesi allattavano, stendevano i panni e presidiavano nelle solite forme di attesa senza tempo; ragazzi arabi nullafacenti che parlavano del passato mai visto davanti a un muretto a secco.

Qui era tutto sospeso tra il sonno e il sospetto fino al venerdì. In fondo, il primo venerdì della hogra, della rabbia, tanto citato durante le cosiddette primavere arabe, l’ho visto qui, a Gerusalemme Est.

Nell’arco di un’ora la prima spianata disponibile prima della curva a gomito degli insediamenti ebraici ortodossi di Sheik Jarrah diventava un presidio delle categorie che solitamente animano questi posti: polizia da una parte, giornalisti dall’altra. Tutti appostati come avvoltoi, ognuno per il suo proposito. Furgoni cellulari, macchine fotografiche e telecamere dappertutto.

In mezzo, attivisti e abitanti, tutti mischiati, in una babele di nazionalità, colori, veli e bandiere. In prima fila gli attivisti israeliani per i diritti dei palestinesi, di seguito gli internazionali, poi i locali. Tutti lì per fermare gli espropri delle abitazioni.

A mezzogiorno si scatenava l’inferno. Il primo attivista iniziava a gridare in ebraico; gli internazionali erano sempre dotati di tamburi per sostenere gli slogan del sit-in; i locali – palestinesi ed ebrei – su marciapiedi opposti ma con i segni della loro appartenenza settaria bene in vista, specie barbe e cappelli –, assistevano alla scena con un misto di déjà vu e noia.

Il corteo diventava più agitato al primo arresto della polizia. L’attivista scalciava e gridava fino a fasi infilare nel furgone; i giornalisti si precipitavano ad acquisire la postazione migliore per riprenderlo e ci scappava qualche pugno e qualche manata; ma mai sulla lente perché un minimo di fair play professionale non lo si abbandona mai, nemmeno nella situazione più tesa.

Si procedeva al fuggi-fuggi quando la polizia israeliana decideva di fare pesca a strascico e l’arresto non era uno solo, o due al più, per mostrare i muscoli, ma era massivo.

Come quella volta in cui ne arrestarono 11 di diverse nazionalità caricandoli di santa ragione, mentre i freelance senza permessi, tesserini e altre autorizzazioni sciamavano verso i quattro punti cardinali, sperando di non cadere sotto la mannaia della sicurezza.

Era una situazione bizzarra che andò avanti mesi, in barba ai broadcaster internazionali a mollo nel Mar Morto e a milioni di pellegrini di Terrasanta che stavano lì dietro l’angolo a inginocchiarsi sul Sepolcro, battersi il capo al Muro del Pianto, inchinarsi per la preghiera sotto la cupola d’oro di al-Aqsa mentre, sopra le rovine del glorioso tempio di Davide, prosaicamente ce le davamo di santa ragione ogni venerdì.

In questa palestra ci siamo formati in parecchi e, a distanza di anni, con alcuni abbiamo scoperto di esserci conosciuti proprio lì, tra una manata e l’altra, in questa Gerusalemme dove non risorgeva nessuno dalle pietre millenarie e dove – ironia della sorte – i muri non si innalzavano con cura ingegneristica ma si abbattevano con una ruspa vecchio modello.