La Francia contro il lavoro

Continuano in Francia le mobilitazioni contro la controversa riforma del mercato del lavoro promossa dal Ministro El Khomri. Un’analisi per capire come questa legge penalizzerà i lavoratori francesi.

di Andrea Iossa

Il disegno di legge presentato il 24 marzo all’Assemblea Nazionale da parte della Ministro del Lavoro Myriam El Khomri e aspramente contestato dai lavoratori, da gran parte delle organizzazioni sindacali, e dalle associazioni studentesche, ha l’obiettivo ambizioso di riscrivere le regole del diritto del lavoro francese.
Si tratta infatti di un progetto di riforma del codice del lavoro piuttosto sostanzioso (e corposo) che il governo francese presenta come ispirato ai valori di progresso sociale e protezione dei lavoratori, e mirante a rafforzare e migliorare le relazioni tra lavoratori e sindacati da un lato e imprese dall’altro.

In un’ottica di rilancio della competitività aziendale, i nodi centrali della riforma riguardano, tra le altre modifiche proposte, la possibilità per la contrattazione di aziendale di derogare agli standard minimi fissati per legge in materia di orario di lavoro, e la ridefinizione dei motivi di natura economica in grado di giustificare un licenziamento individuale.

Questo secondo punto in particolare viene indicato dal governo come atto a favorire la tenuta economica delle piccole e medie aziende che potranno così essere in grado di assumere più facilmente. Allo stesso tempo, il governo sottolinea anche come un allargamento delle maglie dei motivi di licenziamento possa contribuire a ridurre il ricorso ai contratti a tempo determinato, favorendo così l’impiego e la stabilità dei lavoratori.

I punti controversi: contrattazione aziendale e licenziamenti economici

Le deroghe da parte della contrattazione aziendale e il nuovo regime di licenziamenti individuali per motivi economici costituiscono, tuttavia, i punti più controversi del progetto di legge. La riforma introduce anzitutto la regola generale che gli accordi aziendali possano regolare in prima istanza (quindi prevalendo sia sulla legge sia sui contratti collettivi di settore) i tempi di lavoro in azienda, l’organizzazione e il calcolo delle ore di lavoro in un regime di massima flessibilità in ragione delle esigenze dell’impresa.

Attraverso la contrattazione aziendale, le parti potranno sistematicamente derogare agli standard di legge in materia di orario di lavoro giornaliero e settimanale. La durata massima della giornata lavorativa, che è fissata per legge a 10 ore, potrà essere portata fino a 12 tramite un accordo aziendale in circostanze legate a buon andamento dell’impresa, come, ad esempio, un incremento dell’attività produttiva. In maniera analoga, la durata massima settimanale di 44 ore (su un periodo consecutivo di 12 settimane) potrà essere portata a 46 ore – e a 60 ore in casi eccezionali e su intervento dell’autorità amministrativa. Inoltre, il disegno di legge attribuisce alla contrattazione aziendale la possibilità di ridurre il costo delle ore di straordinario, regime che in Francia scatta dopo le 35 ore di lavoro settimanale, dal 25% imposto per legge fino ad un minimo del 10%.

In sostanza, la riforma prevede che tramite un accordo aziendale si possa lavorare di più ed essere pagati di meno rispetto agli standard fissati per legge.

In merito alla regolamentazione della contrattazione aziendale, bisogna anche sottolineare che il progetto presentato dal governo francese riafferma il principio dell’accordo maggioritario, già introdotto con la riforma del 2013, secondo il quale un contratto collettivo d’impresa è valido solo se sottoscritto dalla maggioranza dei rappresentanti aziendali delle organizzazioni sindacali. In caso contrario, ovvero in caso di mancato accordo tra le organizzazioni sindacali, è tuttavia previsto che un singolo sindacato o una coalizione di minoranza che rappresenti almeno il 30% dei lavoratori dell’impresa possa indire un referendum attraverso il quale i lavoratori impiegati nell’azienda possono esprimersi sull’accordo aziendale in questione.

La dimensione aziendale è centrale anche in materia di licenziamenti individuali per motivi economici – l’altro punto controverso della riforma. La proposta di legge stabilisce che i motivi di natura economica in grado di giustificare un licenziamento individuale possano derivare da una riduzione dell’attività produttiva dovuta a una diminuzione degli ordini o delle vendite (calcolata su base trimestrale rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente), alle trasformazioni tecnologiche, alla riorganizzazione dell’impresa necessaria a salvaguardarne la competitività o alla cessazione dell’attività stessa.

Se l’azienda in difficoltà non appartiene ad un gruppo la valutazione delle difficoltà economiche avviene a livello d’impresa, mentre in caso di appartenenza ad un gruppo, la valutazione avverrebbe a livello di settore. L’imprenditore può quindi determinare unilateralmente le ragioni di un licenziamento individuale sulla base di valutazioni strettamente contingenti e puramente economiche. La proposta di riforma inoltre non prevede l’obbligo di tentare il ricollocamento del lavoratore licenziato in un altro stabilimento né di reinserimento nel mercato del lavoro attraverso un periodo di formazione.

Volendo tentare una breve analisi della riforma, si potrebbe azzardare che viene messo in atto un attacco ai principi base del diritto del lavoro.

In primo luogo, la priorità attribuita alla contrattazione collettiva aziendale ribalta lo schema classico delle fonti regolative del lavoro assegnando un potere di regolamentazione ad uno strumento – il contratto aziendale – negoziato in una condizione di assoluto sbilanciamento tra imprenditore e lavoratori, i quali partecipano al processo negoziale sotto lo scacco della delocalizzazione e della chiusura degli stabilimenti (soprattutto in un momento storico caratterizzato dalla retorica della crisi e dalla facilità di spostamento su scala globale per i capitali e le grandi imprese, come accaduto per esempio nel 2010 nel caso Fiat).

La prevalenza della contrattazione aziendale fa inoltre decadere il cosiddetto principio del favor, secondo il quale il lavoratore ha diritto alle condizioni di lavoro e impiego più favorevoli, che siano stabilite dalla legge, dal contratto collettivo o da quello individuale.

In secondo luogo, una rigida definizione per via legislativa delle motivazioni economiche valide per effettuare un licenziamento individuale sottrae alla magistratura del lavoro (che in Francia comprende anche rappresentati delle parti sociali, e quindi anche dei sindacati) il potere discrezionale di valutare l’effettiva presenza o meno delle ragioni economiche dell’impresa che licenzia, rafforzando quindi il potere del datore di lavoro. Il risultato è ancora una volta il ribaltamento di un principio cardine del diritto del lavoro, ovvero la protezione della parte più debole nel rapporto di lavoro.

Il raffronto con l’Italia: una sensazione di déjà-vu

Come spesso è accaduto in materia di politiche del mercato del lavoro, l’Italia si trova un passo avanti rispetto ad altri Paesi europei.

Il ribaltamento della gerarchia delle fonti regolative del lavoro che pone in cima il contratto aziendale è infatti stata introdotta in Italia con la legge n.148/2011 approvata dal governo Monti, che prevede che accordi aziendali firmati da rappresentanti aziendali dei sindacati più rappresentativi a livello nazionale possa derogare a norme di legge e alle clausole dei contratti collettivi di settore.

Per quanto riguarda il licenziamento per motivi economici, la regolamentazione era già stata ampiamente ammorbidita dalla riforma Fornero del 2012, che manteneva l’obbligo di reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato per motivi economici solo in caso di ‘manifesta insussistenza’ di tali motivi, mentre per l’insussistenza semplice prevedeva il risarcimento da 15 a 24 mensilità.

Il reintegro per “manifesta insussistenza” è stato poi abolito dal Jobs Act adottato dal governo Renzi nel 2015 (ed esplicitamente richiamato dal governo francese nell’étude d’impact che accompagna il progetto di riforma) che lo ha sostituito con un indennizzo che può variare dalle 4 alle 24 mensilità.

Dalla prospettiva italiana, la proposta di legge presentata dal governo socialista di Hollande appare dunque come un déjà-vu, che può non stupire ma che rafforza l’opinione che gli interessi delle imprese vengano sostenuti in maniera forte e aggressiva anche da quei governi che sulla carta dovrebbero essere gli eredi di una tradizione politica che si è sempre schierata dalla parte dei più deboli nella società.