Jerusalem

Una città, tanti linguaggi, mille storie: la prima narrazione collettiva di Q Code Mag

di Enrico Natoli

Tutto ciò che sapevo di una città me l’aveva raccontato decenni fa una ragazza minuta, tutta nervi, con gli occhi così grandi che a volte sembravano uscirle dal viso. Con le labbra socchiuse che invitavano in silenzio, senza volerlo, a baciarle con passione e non pensare ad altro perché non esisteva altro.

C’era quel basso, martellava su un’incudine immaginaria. Una voce suadente dolce e poi nevrotica e graffiante a volte gridava come di dolore trattenuto a lungo e uscito infine a sprazzi di energia pura.

La testa rasata che non sapeva neanche per un attimo di rinuncia alla femminilità. Un manifesto gigante di protesta portatile scritto senza lettere, sempre esibito. Di facile lettura per chiunque.
Il basso martellava senza interruzione. La voce lanciava un grido, un altro più lungo. Poi voci di sfondo, come di una folla in corsa che cerca un rifugio per ripararsi non si sa da cosa, non si sa in quale rifugio possibile. Suoni stridenti.

Avevo visto Derry una volta, una volta sola nella vita. Città divisa da un confine scritto su un muro.
‘You are now entering free Derry’. Divisa anche nel nome perché chi ti trovavi davanti poteva chiamarla Londonderry. Senza darti spiegazioni, meno che mai sentire di dovertene, esigeva che tu sapessi tutto quel che c’era da sapere. E, ancora prima, da quale parte stare.

Poteva andarmi molto bene, o molto male, nello spazio di una risposta. Potevo entrare senza rendermene neanche conto nel gruppo di persone con l’etichetta sbagliata. Sei cattolico o protestante? Sei fascio o zecca? Hutu o tutsi? Ebreo o ariano? Partigiano o camicia nera? Tamil o singalese? Si somigliavano tutti quei bivi senza ritorno, a qualsiasi latitudine si presentassero e in qualsiasi epoca, che ad affrontarli ci voleva un coraggio non comune. Non c’era un momento giusto per quella domanda, non si poteva mai essere davvero pronti.

Io non mi schieravo. Non per una particolare codardia nei confronti della vita o per paura del bivio. Dichiararmi neutrale non mi avrebbe salvato comunque da una visione radicale, la ragione che ti porta a spostare, veleno che si propaga con lentezza, i torti tutti dall’altra parte. Le tue incongruenze, asimmetrie a volte evidenti, considerate solo frutto degli errori e dei soprusi dell’altro. Nella mia posizione sarei diventato solo un altro torto da raddrizzare.

Dichiarare neutralità in un conflitto che non ti appartiene diviene sinonimo di vigliaccheria quasi sempre. Finisci col non piacere a nessuno. Se decidi di assecondare le tue sensazioni ci vuole un certo coraggio nel diventare, ti piaccia o meno, la terza parte di una situazione codificata dove trovano spazio solo un bianco e un nero e niente altro. È che ho sempre detestato le mode per cui se frequenti un certo ambiente devi tifare per una fazione.

Assimilarne i modi, i gusti, i vestiti, le parole, i pensieri, per farne parte ed essere accettato. Detesto i partigiani a distanza, persone mai state dentro a un conflitto che pensano di conoscerne ogni piega nascosta, ogni sfumatura, così bene da poter tracciare una riga e distinguere senza esitazione noi da loro. Scaricano le proprie ansie gettando benzina su un fuoco che poi tocca ad altri affrontare e nel frattempo detestano quelli come me.

Da venticinque anni non metto piede a Derry. Non so cosa sia diventata né chi la abiti. So che quella scritta sul muro non l’ho più dimenticata, ricordo come in una fotografia ancora resistente ai segni del tempo l’incamminarmi nella strada che la costeggiava avendo la sensazione fisica di oltrepassare un confine invisibile, del tutto reale. Irreale. Ma reale. Cattolico o protestante. Reale o irreale.

Tutto questo mi è tornato in mente quando è arrivata la comunicazione della prossima sede di lavoro. È vero, avevo chiesto io di essere destinato lì, più per evitare un’altra destinazione dall’altra parte del mondo che per convinzione. Un altro bivio, solo meno stringente e definitivo. Se le cose andranno male avrò sempre la possibilità di tornare indietro. Da quando conosco la mia prossima destinazione ho pensato di frequente a Derry e alla ragazza minuta che senza saperlo per un po’ ha popolato i miei pensieri, i miei sogni. Quando ancora li avevo. Parlandomi di una città dove non ero mai stato.

Le relazioni possibili tra due luoghi forse possono essere soltanto immaginarie. Quanto di più lontano da una rappresentazione oggettiva della realtà. Forse Derry non ha proprio nulla in comune con Gerusalemme se non nella mia testa. Non so cosa aspettarmi, se saprò ambientarmi nel luogo di lavoro che mi attende, non voglio aspettarmi nulla. Posso documentarmi, leggere decine di libri, ascoltare racconti di chi ci è già andato, collegarmi alla rete e trovare migliaia di risorse dovendo distinguere, senza sapere come, tra fonti affidabili e non. Non ne vorrò sapere fino al giorno in cui ci metterò piede.

Vorrei trovare le persone ignorate dai libri di storia, dalle cronache e dai film, dai racconti ufficiali; uomini e donne in vita per evitare il bivio senza ritorno destinato a quella fetta di mondo, con la mano tesa ogni volta che possono e pazienza se a volte gli torna indietro con le dita un po’ scorticate. Magari non avranno volti così diversi da quelli che trovo ovunque e trattengo dentro di me incontrandoli tutti i giorni, festivi e bivi compresi.

Apro Youtube, cerco la canzone che ascoltavo da giovane. Mentre il basso riprende a martellare preciso e senza tregua confondo le cose. Una canzone con un muro, un titolo con una scritta, una faccia con un racconto, un lavoro con un’aspettativa, una città con un’altra. Vorrei ritrovare a Gerusalemme quelle labbra invitanti e invecchiate come me.

Esco dal tunnel della metro nella banale normalità quotidiana che non merita un racconto. Lo spazio per pensare si esaurisce davanti alle sembianze di un militare armato a presidio della fermata e nel sorriso smagliante di un ragazzo che vende calzini abusivi poco più in là. L’idea di partire per Gerusalemme mi impaurisce e mi emoziona nella stessa misura in cui ho paura di me stesso e dei miei pensieri.
Poi se ci faccio caso so che decisi di chiamarla Derry. Una posizione – per pregiudizio o per simpatia, per puro caso o svogliatezza o convinzione – alla fine ce l’ho.