Sinistra Europea e Brexit

Intervista con Owen Jones,
scrittore ed editorialista del Guardian

di Alexander Damiano Ricci e Angelo Boccato

ComradeOwenJones

Lo scorso Dicembre, presso il quieto Candid Café (quando si dice in nomen omen) ad Angel,  quartiere nella parte settentrionale del centro di Londra e molto vicino alla frenetica City e all’ altrettanto vibrante Shoreditch,  i giornalisti Alexander Damiano Ricci e Angelo Boccato incontrano Owen Jones, 31enne editorialista del Guardian , autore dei libri Chavs e The Establishment e figura di rilevo della sinistra britannica.

La intervista, della durata di un’ ora , spazia dall’assetto del Partito Laburista guidato da Jeremy Corbyn alle sfide per la sinistra europea. Una parte dell’intervista viene pubblicata lo stesso mese su Left , mentre qui includiamo la parte finale della conversazione, concentrate sui temi della Brexit e le sfide della sinistra europea.

Owen Jones, cos’è l’ Establishment?
L’Establishment è l’insieme di istituzioni e idee che nel Regno Unito proteggono la concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di poche persone. Si tratta di un sistema di potere incentrato sugli interessi economici di una minoranza.

Chi incarna l’Establishment?
Non stiamo parlando di individualità precise, di persone, ma di un sistema e della sua riproduzione. Al suo interno le singole parti – élites finanziarie, politiche e mediatiche – interagiscono fra di loro, unite dalla stessa ideologia.

E’ una definizione un po’ vaga, non crede?
Non si può ridurre un cervello alle sue componenti. L’Establishment costituisce un sistema dinamico. Non stiamo parlando di persone sedute in un stanza che si fregano le mani con avidità e che cercano di capire come peggiorare la vita dei cittadini. E neanche di una teoria della cospirazione, ma di un processo razionalizzato: chi sta in cima alla piramide sociale cercherà sempre di accumulare ricchezza, a meno che non ci sia qualcuno che si opponga a questa logica.

E’ un po’ ciò che dice Pablo Iglesias, leader di Podemos, in Spagna a proposito della Casta?
Le élites che compongono l’Establishment sono molto diverse da Paese a Paese. Ciò dipende da percorsi storici e culturali molto differenti tra di loro. La “Casta” spagnola è un specifico esempio di establishment.

Cosa ha portato storicamente all’affermazione di quello che lei chiama Establishment?
Negli anni ’70 c’è stata una mobilitazione formidabile di centri di ricerca e think tank – al tempo outsider della politica – che oggi godono dell’appoggio delle grandi corporation. Questi attori hanno elaborato strumenti ideologici e politiche economiche che hanno portato alla nascita dell’Establishment come lo conosciamo oggi. In buona sostanza si tratta di quel apparato teorico che oggi definiamo neoliberalismo, una parola sfortunata a dire il vero …

Perché “sfortunata”?
Perché porta solo a riflessioni teoriche, ma riduce il potenziale di protesta sociale.

Ovvero?
Privatizzazioni di asset pubblici, taglio delle tasse per gli individui più ricchi, deregolamentazione della finanza: sono tutte componenti dell’ideologia neoliberale che razionalizzano la riduzione dei diritti sociali e l’accumulazione di potere nelle mani di pochi. Ma ciò non vuol dire che le persone sappiano cosa sia il neoliberalismo.

Mentre l’Establishment si consolidava gli altri stavano a guardare … ?
La sinistra storicamente si è sempre appoggiata soltanto ai sindacati per l’elaborazione di idee e politiche. Oggi nel Regno Unito l’unico contraltare ai centri intellettuali conservatori e neoliberali sono i think tank “New Economic Foundations” e “Class”. Ovviamente ci sono anche singoli intellettuali e accademici, ma è un universo frammentato.

Cosa insegna tutto ciò?
Che i conservatori predicano l’individualismo e praticano un collettivismo ferreo, mentre i progressisti fanno esattamente il contrario: parlano di collettivismo, ma sono più individualisti che mai.

A parte l’aspetto ideologico, come si è rafforzato praticamente l’Establishment?
L’Establishment si è affermato soprattutto grazie al fenomeno delle porte girevoli tra politica e business. L’esempio tipico è quello di un ministro della sanità o della difesa che viene assunto da imprese dello stesso settore dopo aver lavorato nel pubblico. Si tratta di una totale fusione di interessi privati e pubblici.
Eppure il Regno Unito viene storicamente considerato la patria del liberalismo, della democrazia moderna intesa come separazione dei poteri …
Da un punto di vista economico il Regno Unito rappresenta un Paese liberale. Ma cosa vuol dire storicamente “liberalismo”? Negli anni ’20 in Italia furono proprio coloro che si definivano liberali a lasciare il potere a Mussolini. Il liberalismo rimane un’astrazione, un sistema politico in cui le persone detengono formalmente gli stessi diritti, ma in cui, da un punto di vista pratico, solo alcuni possono esercitarli.

Sta dicendo che il Regno Unito non è un Paese liberal-democratico?
Il punto è che in questo Paese la democrazia è minacciata da chi siede in cima alla piramide sociale. Nel Regno Unito la ricchezza delle 1000 persone più benestanti è raddoppiata in un momento storico in cui circa 1 milione di persone, tra cui 200mila minori, sopravvivono grazie ad associazioni caritatevoli. In termini percentuali, i salari dei lavoratori hanno subìto il calo più drastico dall’epoca Vittoriana a questa parte.

Eppure ci sono Paesi in cui le cose vanno peggio, non crede?
Paragonare il Regno Unito a altri Paesi non risolve certo i problemi che abbiamo in patria.

Se quello che chiama Establishment è così ben strutturato e se lei è stato in grado di descriverlo così nel dettaglio, perché le persone accettano questo sistema di potere?
L’Establishment si appoggia al discorso del “non c’è alternativa”; instilla il timore che, cambiando le cose, si crei soltanto caos. In secondo luogo, nel Regno Unito i media sono ormai in mano a pochi magnati e sono diventati strumenti per difendere gli interessi dell’Establishment stesso. Così la rabbia delle persone è stata di re-indirizzata: dallo scontento verso la finanza e gli evasori fiscali del 2008 si è passati alla denigrazione dei propri “simili”, soprattutto migranti e lavoratori.

Eppure lei fa parte di quel mondo mediatico dato che scrive per il The Guardian …
Il The Guardian mi concede una piattaforma per scrivere e non mi ha mai censurato in alcun modo. In un certo senso il The Guardian rappresenta un caso unico all’interno del panorama mediatico britannico, generalmente sbilanciato a destra e molto aggressivo.

Che ruolo gioca il Labour Party in questo quadro?
Per molti il partito si è venduto alle stesse idee dell’Establishment. Eppure io credo che il Labour si possa cambiare dall’interno. Molti la ritengono una strategia destinata a fallire e sicuramente questo partito rappresenta un veicolo imperfetto per portare avanti istanze contro l’Establishment. Ma gli ultimi mesi stanno dimostrando che c’è sempre stata un’ala più radicale al suo interno che può fare bene.

Come vede il cammino e le sfide dei movimenti anti-austerity in Europa?
Credo che il problema dei movimenti anti-austerity stia nel prefisso “anti”: essere “contro” qualcosa e non proporre nulla di nuovo non porta risultati. La sinistra è troppo difensiva.

Cosa dovrebbe fare invece?
Dovrebbe creare una visione alternativa della società. La sinistra oggi viene dipinta come un dinosauro, come una forza conservatrice. I neoliberali invece propongono nuove visioni e riescono a rendere popolari i loro contenuti politici.

È un problema di linguaggio?
Sì. Il discorso progressista è diventato una grande camera d’eco di cui godono soltanto i militanti. La vera sfida invece è quella di costruire un movimento popolare. Oggi, la maggior parte delle persone non ragiona più in termini di destra e sinistra, ma pensa a problemi concreti che devono essere affrontati in maniera convincente. È necessario unire la classe media e quella popolare. Lottare soltanto per il 15% più povero della popolazione e cercare di guadagnare le simpatie del resto sarebbe semplicemente una politica “vittoriana” e paternalista.

Qual è il rapporto tra Unione europea e Establishment britannico?
L’Establishment è sempre stato diviso sulla questione dell’Unione europea. Nel 1979  il Regno Unito è stato portato nella Comunità Economica Europea (CEE, ndr.) da un governo conservatore. Il Labour, al tempo, invocò un referendum e il partito si spaccò. Parte del Labour vedeva nella CEE un insieme di politiche pro-mercato che avrebbe ostacolato qualsiasi futuro governo laburista. La situazione è cambiata durante gli anni ’80.

In che senso?
La sinistra aveva intravisto nella nascente Unione europea l’unico modo per ostacolare l’ascesa di Margaret Thatcher. Allo stesso tempo, i conservatori cominciarono a percepire l’Ue come un freno alle proprie politiche.

Come vede oggi il progetto di integrazione europea?
Ormai è un progetto ibrido. C’è ancora una parte dell’architettura che si basa su un riconoscimento dei diritti sociali. Ma l’Ue sta sempre più voltando le spalle a quell’idea. Basta guardare al TTIP e all’approvazione di accordi come il Six Pack e il Fiscal Compact.

In vista del referendum sull’Ue, nel Regno Unito impazza il dibattito sulla “Brexit”. Lei oggi come voterebbe?
Credo nella possibilità di cambiare l’Ue dal suo interno.

L’ultimo capitolo di The Establishment è intitolato “una rivoluzione democratica”. Cosa ha in mente?
È un’anticipazione di Politics of Hope (“La politica della speranza”, traduzione), idealmente il libro che seguirà a The Establishment. Voglio proporre un manifesto delle alternative possibili rispetto alla vecchia sinistra e al dominio del conservatorismo pro-mercato in Europa.

 

L’immagine in apertura è una foto di Descrier tratta da Flickr in CC