Jerusalem

Una città, tanti linguaggi, mille storie:la prima narrazione collettiva di Q Code Mag

di Giuseppe Tandoori Del Vecchio

A Marele, perché c’era e vegliava su di me da lontano
A Barbara perché c’era e vegliava su di me da vicino
A Majd, Haitham e Safaa perché prima o poi li abbraccerò
A Marta perché lei c’ha le forbici
Ai bambini col pallone di Gerusalemme
A Rim Banna per la sua voce e la sua forza
A Marco e Alice perché li porto dentro.
Ovunque io sia.

 

 

Abbandono

 

 

Cammino con passo lento.
Sono solo.
Ne ho davvero bisogno.
O almeno questa è la sensazione a primo impulso.
Rimetto i miei passi negli stessi punti in cui andavano con velocità multipla
rispetto ad ora.
E’ tutto così diverso.
Non c’è più nulla da fare.
Nulla in cui sperare.
Sono completamente imbambolato e quel tremore che mi ha fatto pronunciare
parole dure pochi istanti prima piano piano svanisce, trasformandosi in ovattata
flemma.
Ho un dolore fortissimo alla coscia, lacerata in un raro momento di serenità, ma
so che camminerò.
Per dieci ore almeno.
Mi guardo indietro.
Nulla.
Nessuno.
Devo andare.
2
Convincermi che è giusto che io rimanga solo coi miei pensieri in quella città
impazzita.
Convincermi che questo 17 aprile vagherò come un disperato.
Dimenticare che questo sarebbe dovuto essere il giorno più speciale di tutti.
Cerco di appizzare le orecchie.
Pagherei per sentirmi dire di tornare indietro.
Ma non sarà così.
Via.
Vado via.
Lentissimamente.
Ho voglia di piangere.
Sorrido.
Una piccola torretta nasconde ancora quell’uomo con la fettuccia nera intorno al
braccio al quale pochi giorni prima avevo chiesto indicazioni per Damascus Gate.
Mi guarda. Lo guardo in cagnesco. Controlla ogni mio singolo passo. Ma io non ho
più bisogno di lui. Conosco ogni centimetro di quello strapiombo che serve per
evitare un paio di lunghi tornanti. Inciampo. Impreco. E lui mi guarda. Immobile
nel corpo ma vigile ed elastico sul collo. Faccio con la mano il gesto che unisce le
dita verso un punto come a dire “ma che cazzo vuoi da me?”. Abbassa per pochi
istanti lo sguardo. Rimetto gli occhi a terra e piano piano continuo a scendere.
Incurante di quello sguardo che mi seguirà fin quando diventerò un punto
lontanissimo.
Non vado diritto per la strada che conosco.
Non ne ho voglia.
Non ho voglia di ricordi adesso.
Svolto a sinistra.
Piano piano le persone che incontro si moltiplicano.
Gli odori del traffico si trasformano in odore di spezie.
Le persone perdono quei colori bui e quel passo prescioloso e acquistano
lucentezza.
3
Incontro occhi sorridenti.
Vivi.
Vogliosi di mostrare la propria energia repressa.
Ma io sono triste.
Ho dentro un mondo fatto di mostri e di violenze.
Di no e di muri.
Di occhi e fucili puntati.
Bestemmio.
Maledico chi mi ha costruito questo carattere odioso.
Cammino.
Con una lentezza esasperante.
In un barlume di coscienza mi accorgo che quella strada va troppo a sinistra.
Voglio Damascus Gate. Voglio rientrare di là. Fermarmi per ore in un punto a
guardare. Voglio farmi del male serio.
Decido di non tornare indietro.
Dovevo andare dritto per avere la certezza della meta.
Ma in fondo troppe certezze stanno svanendo.
Cosa me ne faccio di una così scialba?
Vedo un tram in lontananza.
Sono sicuramente di fronte a quel muro che tiene dentro la Old City.
Ripenso a quando ci entrammo la prima volta.
Sorrido.
Era un punto lontano da tutto.
Nascosto agli occhi dei turisti.
Diroccato.
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Sporco.
Meraviglioso.
Mi intristisco.
Sorrido ancora.
Penso che quella sera ho salvato la vita ad una persona tenendola con due dita e
facendo una strana danza su quei lastroni.
Chiudo gli occhi per un istante.
Annullo ogni pensiero.
Accendo una sigaretta incurante dei conati che vengono su.
La strada finisce mostrando quel muro senza porte e quei binari costruiti per
separare più che per avvicinare un posto all’altro.
Non attraverso la strada.
Giro a destra.
Il susseguirsi di negozietti e di bancarelle non mi turba né mi distrae.
Sono troppo lontano da tutto.
Fumo.
Inciampo spesso.
Lo zaino comincia a creare sudore sulla schiena.
Fa proprio caldo.
Il mio sguardo cade dentro agli occhi di un bambino. Mi sorride. Accosta pollice
ed indice alla bocca per farmi capire i suoi bisogni. Mi fermo. Mi abbasso sulle
gambe per arrivare alla sua altezza incurante del dolore di quel movimento. Metto
la mano in attesa di un cinque che arriva potente e robusto. Faccio finta di
essermi fatto male. Ride a crepapelle. La gente passa e guarda curiosa. Mica come
quegli altri. Fino a pochi istanti prima non sarebbe entrato uno spillo nel mio
stomaco. Ma che fai? Non fai compagnia a un bambino che ha vinto per premio
una colazione gratis da un viso pallido? Sceglie lui. Dal più trasandato dei
banchetti. Prende due cornettazzi, quelli che costano meno, me ne passa uno e
poi scompare. Ma come? Cazzo fai? Mi lasci solo come un coglione?
Pago.
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No. Non pago. Quell’uomo non vuole i miei soldi. Ride. Forse la mia faccia lo ha
soddisfatto.
Rimetto quei 20 shekel nel portafoglio.
Con un gesto istintivo tiro fuori il portafoglio e controllo che quella cartuscella
conquistata a Ben Gourion sia ancora là.
Ho un desiderio pazzesco di strapparla.
Il baratro.
Ancora.
La gente torna ad essere lontanissima da me.
Ma sono io.
Lo so.
Guardo l’ora.
Sono le 10.30.
Ho la scarpa destra slacciata.
Me ne fotto.
Mi siedo sullo scalino di un negozio.
Sonnecchio.
Cosa ne sarà di me?

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Ancestrale Mistero

Non c’è né male e né bene
neanche un dio trascendentale
il diavolo povero cornuto
un’invenzione congegnata
per controllare
(Nuove Tribù Zulu – Il Dio Dentro)

Non posso restare qui.
Non posso perdere il mio tempo nel tempo fermo.
La gente va.
Chissà dove.
Chissà perché?
Dove vanno con quei cappelloni neri e quei riccioletti unti?
A cosa servono quelle strisce di stoffa che corrono lungo le gambe.
Ma perché corrono sempre?
Hanno paura?
Ma perché se hanno paura girano con quelle facce di merda?
Dove vanno quelli con quel sorriso stampato?
A cosa servono quelle mani sporche se non fanno nulla, se non possono fare
nulla.
Ma perché sono così compassati e sornioni?
Come fanno a non aver paura?
Ma perché se non ostentano paura sono così comprensivi?
Passo la mano sugli occhi.
Poggio le mani sulle ginocchia.
Faccio perno.
E come un elefante appesantito mi rialzo.
Una ragazza con uno splendido velo sulla testa e con occhi nerissimi mi guarda.
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Incrocio il suo sguardo.
Sorrido quasi per dovere.
Abbassa lo sguardo timida.
Lo rialza.
Le sorrido ancora, stavolta per pura necessità.
Lei tiene.
Ma sono io a cedere.
Non merita di aspirare tristezza dai miei occhi.
Non merito di rubarle neanche un infinitesimo della bellezza che effonde.
Ricomincio a camminare.
Lentissimo.
Accendo una sigaretta.
Guardo per terra e cammino.
Ogni tanto controllo dall’altra parte della strada se Damascus Gate si degni di
apparire.
Ho sete.
Fumo.
Cammino.
Controllo il telefono.
Non ho connessione.
Cerco di capire se qualche anima buona ha lasciato accesso al suo wi-fi.
Bisogno di sapere se.
Nulla.
Io oggi non ho bisogno di nulla.
Voglia di tornare indietro.
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Voglia di fermarmi.
Voglia di cercare di capire se.
Cosa?
Chi cazzo sono io per dover sapere?
Cammino.
Mi forzo.
Alzo gli occhi.
Volto lo sguardo.
Damascus Gate.
Quante volte ho valicato quella porta?
Quante speranze entrando?
Quanta rabbia uscendo?
Quante attese nella sua pancia?
E ora?
Entro?
Così? Senza motivo?
Senza dover chiedere nulla?
La guardo.
Fisso.
Se ne sta bella bella dall’altra parte della strada.
Le mancano solo i denti aguzzi da squalo.
Devo entrare.
Devo.
Mi faccio forza.
Compro un quaderno.
9
Non ho mai scritto in questi giorni.
Buffo.
Attraverso la strada.
So che qualcuno si preoccupa quando attraverso la strada e per questo motivo
guardo e sto attento.
(Non succederà più, te lo assicuro).
Scale e scaloni.
Bisogna scendere sotto il livello della strada per entrare a Damascus Gate.
Scaloni alti.
O, andando a cercarli, scaloni intramezzati da scalini.
Più passi. Meno ripidità.
Faccio gli scaloni e sorrido.
Ricordi anche sulla minima cazzata.
Mi fermo sull’ultimo.
Il dolore alla coscia mi ricorda che sono un coglione.
Mi siedo ancora.
Non è tempo.
La Old City mi fa paura adesso.
E’ a pochi metri da me.
Con quel suo ingresso buio e coperto pregno di voci e di odori.
Uno scrigno pazzo che mi attrae ma che.
Accendo una sigaretta.
Prendo il quaderno.
Cerco una penna.
Faccio fatica a capire da che parte scrivere.
Un quaderno fatto per scrivere al contrario.
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Piango.
Rido.
Fumo.
Ma non scrivo.
Non ho nulla da scrivere,
Lo farò dopo.
Ancora 10 minuti Gerusalemme vecchia.
Ancora 10 minuti e sarò roba tua.
Promesso.
“Come si fa quando senti i mostri che ti inghiottono?”
“Tesoro…”
Entro.
Cerco un posto per sedermi.
Ho sete.
Qualcuno è con me.
Con le parole.
Con il pensiero.
Fa ristoro.
Anche la Taybeh lo fa.
Va giù e stordisce.

Stanchi di questi bugiardi
dell’omelia domenicale
di rituali macabri
e della paura a profusione
della morte
perché noi ci reincarniamo
ancestrale mistero
il paradiso è quello dei giusti sulla terra
e di uomini e donne
con le ali

11
Tre Ore

“In cerca di una vita
Da raccontare una volta a casa
In cerca di una storia
Che non si è mai saputa”
(Three hours – Nick Drake)

Riprendo il cammino.
Verso chissà cosa.
Riprendo in mano i pensieri.
Torno indietro e corro in avanti.
Scopro ancora e tristemente che è più facile far memoria che cercare di capire
cosa fare da qui in poi.
Mi incazzo a vedere chi passa di fretta e che dalla propria memoria ha preso per
farla pagare ad altri.
Di quella sorta di nonnismo da caserma.
In fondo sembra non ci sia nulla di male se oggi infilo in un armadietto la povera
scheggia e a forza di cazzottoni lo costringo a farmi il juke-box.
L’ho passata pure io.
In fondo sembra non ci sia nulla di male se oggi infilo in un lager dei poveri
innocenti.
Ero innocente anche io.
Ma passa anche questo.
La rabbia ha bisogno di forza.
Ed io oggi di forza proprio non ne ho.
Dò luce al telefono.
Non porto al polso orologi dai tempi delle medie.
Guardo l’ora così.
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Mentre con la coda dell’occhio controllo se qualcuno mi ha pensato nella parte
superiore dello schermo.
Nessuno.
Sono le 11.30.
Non si cammina.
Tantissima gente che va verso.
E tantissima gente che torna da.
Un tappo incredibile di persone.
Sembro l’unico ad aver fretta.
Sono l’unico che non ne ha.
Vado dritto.
Comunque.
Non ho voglia di cambiare direzione.
La strada che Damascus Gate mi ha regalato è la strada che merito e che devo
seguire.
E’ strano.
Succede anche sul raccordo a Roma.
Stai fermo per minuti interminabili in un punto dove sembra non ci sia aria tra
una macchina e l’altra e poi, come d’incanto, spariscono tutte.
Così qui.
Una persona ogni tanto.
E anche quella stradina prima ripida e stretta.
Soffocata dai negozietti più multiformi.
Intrisa degli odori più intensi.
Così qui.
Tutto è più pulito.
Più curato.
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Ma artificiale.
Come se si fosse operato un restauro volto a cancellare.
Cosa è successo qui?
In quale incubo sono finito?
Io ci stavo già in un incubo.
Ma era tutto mio.
Questo è diverso.
Suoni.
Applausi.
Odori diversi.
Gente che parla ad un microfono con voce altezzosa.
Cammino.
Devo vedere.
Una piazza enorme.
Bambini coi popcorn.
Bambini rasati con le treccine coi popcorn.
Sedie in ordine.
Piene.
Palco.
Gente seduta che arringa.
Una band che canta una canzone tra un discorso e l’altro.
Bravi.
Bel sound.
Ma sono convinto che abbiano testi orribili.
Non riesco a restare.
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Cerco di tornare in su per una via parallela.
Mura pulite.
Strade pulite.
Negozi che sembra di stare ad Euroma2.
Mi fermo davanti ad una vetrina.
Vendono creme da culo del mar Morto.
Sorrido.
Anche quando sto messo da cane morto un culo mi attira sempre.
E sto per essere attirato da altro.
Una commessa incrocia i miei occhi.
Mi invita ad entrare con fare adescante.
La guardo.
Non reagisco.
“Come on!”
Non reagisco.
Sorride.
Non reagisco.
Rinuncia.
Vado via.
Sembrava una puttana in vetrina ad Amsterdam.
Continuo a camminare.
Devo uscire da questo posto.
Tornare dove la gente ha un odore vero.
Militari.
Mitra.
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Sorridono.
Sorridono e mi fermano poggiati svogliatamente a una transenna.
“Che cazzo vuoi stronzo?”
Sorrido dentro.
Sono talmente ignoranti che probabilmente non conoscono neanche l’inglese,
figuriamoci l’italiano.
“No way!”
“Ma brutto testa di cazzo! Io indietro non ci ritorno!”
“No way!!!”
“Why?”
“No way!!!!” Ecco ha spostato il culo dalla transenna. Gli altri si irrigidiscono.
Ecco mo me sparano!
“I’m not a terrorist!”
Ridono.
Faccio per proseguire.
Capiscono che forse sono scemo.
Uno mi prende per il braccio e mi accompagna oltre la transenna.
“Look!”
Coloni.
Ballano.
Armati.
Se passo.
Mi sparano.
“Ok!”
Mi arrendo.
Torno indietro.
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Prendo la prima strada sulla destra.
Una parallela tra parallele.
Una strada messa là nel preciso istante in cui passavo.
Sono certo che prima non ci fosse.
La Old City lo fa.
Torno in Palestina.
In tre passi.
Presto giocherò a calcio.
Non me lo sentivo.
So solo che è successo.
Ma ora sono troppo stanco per continuare il racconto.
Quel bambino interruppe i miei pensieri nel preciso istante in cui stavano
ammalloppandosi sul “che cosa è cambiato?”
Quel bambino dovrebbe essere qui.
Ora.
Sono passate altre tre ore.

“A tre ore dal tramonto
Jeremy vola
Sperando di nascondere
I suoi occhi dal sole
A est della città
E giù nella caverna
In cerca di un padrone
In cerca di uno schiavo”
((Three hours – Nick Drake)

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Mi Manderai un Angelo?

“Sono qui
Mi manderai un angelo?
Sono qui
Nella terra della stella del mattino”
(Send me an Angel – Scorpions)

Un pallone.
Uno di quelli che da queste parti si vedono nelle teche di qualche museo di
memorie di squadre dilettantistiche.
Un pallone che non ha mai conosciuto lancioni di gittata superiore ai 10 metri.
Ingabbiato a vivere la sua vita tra vicoli chiusi preso in mezzo tra calci di punta e
muri spessissimi e la cui unica via di fuga è quella di prendere la via di qualche
stradina in pendenza.
Un pallone capace di far arrabbiare i passanti perché quello è un posto dove non
può, non deve azzardarsi ad esistere.
Il mio cammino stanco prende una piega di stupore.
Quel pallone aveva deciso, chissà perché, di prendere la via dei miei piedi.
Quel pallone recava la panacea contro i dolori dello stiramento alla coscia e a
recapitare un sorriso.
Eccolo.
Arriva con lentezza e compiendo gli ultimi bassissimi rimbalzi.
Approfitto del suo ultimo ridiscendere verso terra per lasciarlo posare sul mio
piede.
Lo tengo per qualche istante fermo.
A valutarne peso e misura.
Comincio goffamente a palleggiare.
Non tocca terra.
1, 2, 3, 4, 5, 6.
Mai stato bravo a palleggiare.
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Ci vuole serenità per farlo.
Eppure in quel momento dentro la Old City di Gerusalemme sembro essere
diventato Maradona.
E non solo per i sensi offuscati dal dolore e dalla Taybeh.
7, 8, 9, 10, 11, 12
Neanche ricordo quale fosse il mio record.
Ma nel preciso istante in cui ci penso un tocco maldestro mi costringe a sparare
nell’aria un sonoro “Cazzo no!”
Lo prendo tra le mani.
Mi guardo attorno.
Non mi ero accorto che per quel mezzo minuto in cui performavo calcio si era
fatto silenzio attorno.
“Yalla Yalla!”
I proprietari del pallone.
Sembra vogliano vedere fosse stata solo fortuna e con gli occhi e con un gesto
della mano mi chiedono di riprovare.
Ridono.
Si danno spintoni complici.
Si godono la novità.
Il primo coglione che invece di buttare il loro amico rotondo lontano infastiditi, lo
accoglie.
Il mio sguardo cambia aspetto.
Dà una certa sensazione uscire dal tuo di dentro fatto di malinconia per entrare a
far parte di qualcosa che non hai neanche il tempo di decidere.
Qualcosa che ami a prima vista.
Che ti rigenera.
“Match?”
Viene su il ricordo di Sandro.
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Quando arrivava al parchetto significava che eravamo tutti.
Faceva sempre tardi ma non cominciavamo senza di lui.
Senza il suo “Daje! Lo famo un match?”
Uff.
Ok.
Tolgo i pensieri dalla gola e ripeto.
“Match?”
Ma cerco Sandro negli occhi di uno di quei bambini sudici e bellissimi.
Sono attoniti.
Sembrano non capire.
Scopro che non hanno mai pensato a costruire porte di fortuna.
Non hanno nemmeno mai pensato di dover aver bisogno di porte.
Hanno sempre pensato che bastasse prendere a calci quel pallone senza dargli un
obbiettivo per avere la loro spensieratezza.
“Ok! Wait.”
Gesticolo facendo capire che mi spiegherò meglio.
Mi guardano in silenzio.
La gente passa incurante.
Qualcuno un po’ interrogativo.
Treccioline sotto i cappelloni neanche sanno che esistiamo.
Io me ne fotto.
Sono senza più pensieri.
Sto con loro.
Pallone sotto al braccio.
E con l’unico pensiero di cercare qualche metro libero e 4 zeppi per fare le porte.
Avevo visto una viuzza senza negozi e abbastanza deserta.
20
Dove abbastanza sta come sta via del Corso il sabato pomeriggio.
Capiscono quello che ho intenzione di fare.
Si tolgono le magliette in quattro.
Pali pronti.
Io urlo uno strano “Yeppa!”
Seguito da un più convinto “Daje”
Qualcuno guarda i proprio amici e facendo roteare l’indice vicino ad una tempia
mostra chiaramente cosa pensa di me.
Ma parte un coro sparso di “Daje”.
Come guidato da un maestro di musica.
Ma spontaneo come nessun Dio potrebbe mai pensare di fare meglio.
Cerco di fare le squadre anche se sono sicuro che sarà un’ammucchiata tutti
contro tutti.
“Yalla Yalla!”
Palla al centro.
– – –
Me ne sto seduto ad un bar cercando di riprendere forze.
Lascio asciugare il sudore che ancora cola lungo la spina dorsale infilandosi nelle
mutande.
Ordino una Taybeh ghiacciata.
Manca poco.
Sto meglio.
Ma.
Piano piano quella malinconia alla quale ho affidato la mia giornata torna in
circolo.
Come il dolore alla coscia.
Per quella mezz’ora non ho sentito nulla.
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Non ho pensato a nulla.
E sento ancora quel pallone sul collo del piede.
Come fosse quello strano sentire che lascia sulla lingua un bacio.
Accendo il cellulare.
Nessuno mi ha cercato.
Sono le 16.14.
Una serie di messaggi comincia a comparire.
Sono nello stesso baretto al quale avevamo scroccato qualche giorno prima il
codice wi-fi.
Leggo distrattamente.
Sorrido un poco.
Rispondo con uno smile.
Arriva la birra.
Mi stravacco sulla sedia.
Sorseggio avidamente.
E spengo la luce.

“Il saggio disse: “Alza la tua mano
e cerca di afferrare l’incantesimo
Trova la porta per la terra promessa
Semplicemente credi in te stesso
Ascolta questa voce che sale dal profondo
È il richiamo del tuo cuore
Chiudi gli occhi e troverai
l’uscita dalle tenebre”
(Send me an Angel – Scorpions)

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Jerusalem why?

Certe volte la stanchezza fisica aiuta.
Ti lascia quasi sereno.
E’ capace di sgombrare anche il pensiero ricorrente.
Quella strana forma di martellamento alle tempie che ti fa alzare muri verso
chiunque e che ti mette in fuga dal mondo.
Un mondo dove senti che niente e nessuno è con te.
Anzi.
Sembra che siano davvero tutti contro di te.
Guardo.
La posizione di quel tavolino un pochetto kitch è davvero sorprendente.
Sei chiuso in una sorta di trincea.
Coperto alle spalle e con possibilità di guardare ogni cosa di fronte a te senza che
nessuno possa vederti.
Il viavai a pochi metri da Damascus Gate è il solito.
Più lento forse.
Si va verso il tramonto.
I soldati di fronte a me ridono e scherzano.
I pellegrini hanno facce arrossate dal sole e arrancano verso la loro casa nova.
Le persone che vivono là e come ogni giorno cercano di vendere più cose possibile
smettono di attirare persone verso le loro mercanzie.
Sembra sia stata passata una pennellata di slow motion.
E’ piacevole.
Un allineamento perfetto col mio nuovo stato d’animo meno cupo dell’inizio di
questa giornata pazzesca.
Sorseggio l’ultimo dito di Taybeh e vengo immediatamente distolto da quel clima
di pace nel quale mi stavo immergendo.
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Niente.
Non ci si può proprio rilassare un attimo.
“Ma cosa cazzo si corrono sempre?”
La mia domanda al barista in italiano slangato di romanesco serve solo a fargli
fare una faccia stupita.
Sorride.
Si accosta a me.
“What?”
Me la cavo con un “Nothing… No problem…”
Sorride.
Sparecchia.
C’è gente che aspetta un posto.
In fondo se non ordino altro cosa ci sto a fare là?
E poi quel cappellone da formula uno ha abbattuto completamente quella
passeggiata verso la stasi.
Mi alzo.
Penso che non ho più nulla da chiedere a questo posto.
Ha saputo dare.
Ha saputo togliere.
E’ riuscito a farmi capire che uscire dal centro dell’universo non è poi una
tragedia.
Mi ha regalato il suo dito puntato e le sue coccole di fronte al mio recalcitrare per
aspettative non soddisfatte.
E’ stato rifugio e prigione.
Questo posto ha aperto uno squarcio nel mio cuore che non si colmerà mai.
Gerusalemme.
Che cosa c’è dentro di te?
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Quale maledizione?
Quale forza?
Come fai a permettere questo?
Sorrido.
Quando comincio a pormi domande irrispondibili significa davvero che non ne ho
più.
Sono passate tante ore da quando superavo Damascus Gate per essere inghiottito
dal cuore del mondo, verso il mio giorno di dolore.
Ed ora eccomi qui.
A piccoli passi.
A superarlo per lasciarlo a guardare le mie spalle.
Lo faccio in una bolgia di persone che impediscono, sotto quel gomito stretto, un
passaggio senza fermate.
Ho come la sensazione che la Old City non sia paga.
Che voglia trattenermi.
“No! Non la rivoglio indietro la mia anima!”
Sarebbe figo lasciare la propria anima qui.
Nel posto che in questo preciso istante odio di più al mondo.
Nel posto in cui resterei per sempre.
C’è salita.
Strada verso l’appuntamento che mi riporterà nel mondo che per un giorno ho
deciso di mollare.
Penso.
Oggi sarei dovuto stare a Gaza.
Mi fermo un istante e piango un po’.
Dentro.
Penso ai viaggi intensi verso Eretz.
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Sorrido e ricomincio a camminare.
Cosa sarebbe successo se avessi varcato quel cancello giallo?
Mi fermo. Ho un brivido.
E se fossi sceso? Mi avrebbero davvero sparato?
Rido e impreco.
Come l’ultimo dei pazzi.
Lascio che il dolore alla coscia si riposi un pochino.
Riprendo.
Penso che avrei dovuto insistere con più dolcezza.
Bestemmio.
Penso che è meglio smettere di pensare.
Fumo.
Ho voglia di un caffè.
Gerusalemme ha i sensi di colpa e mi esaudisce subito.
Un caffè in una libreria.
Bellissimo.
Ordino un espresso e con pollice ed indice faccio un inequivocabile segno per
averlo il più ristretto possibile.
Hanno il libro di Susan.
Lo comprerò.
E c’è il libro di Vittorio.
Lo prendo tra le mani.
Lo bacio.
Mi guardano strano.
“What are you doing?”
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Faccio segno col dito, lo stesso che aveva dato indicazioni per il caffé, sul suo
nome.
“He is my brother!”
Il mio luccicare di occhi convince quella ragazza bellissima a congedarmi con un
sorriso.
Il limite è arrivato.
Mi ustiono la lingua, pago libro, caffè e una cartolina che mi ha colpito.
Esco.
Accendo una sigaretta.
Fumo guardandomi intorno.
Mi gira la testa.
Ma vado.
Sarò inesorabile nel mio avvicinamento verso quel mondo che avevo rifiutato.
Farò quell’ultimo chilometro in salita in più di un’ora.
In fondo il mio appuntamento è ancora lontano.
Fumo.
E penso…
Mangerò pesce di Gaza stasera.
Yalla!

“Oh you don’t hear me you who comes from an old myth, from the trees, from the
clouds carrying rain.
Please hear me.
My voice is flying over the neck of the flowers.
It’s climbing mountains and overcomes thunders.
You don’t hear my prayer..
ohhh ohh. Salamon Salamon Salamon.(peace)”
(Prayer – Rim Banna & Sedareth)