Scarafuni, scarafuni

Tra Sicilia e Guatemala, tra nuove scoperte e vecchie paure

testo e foto di Tano Siracusa

Degli scarafaggi ho avuto terrore fin da bambino. O forse la mia è una repulsione genetica, prenatale. Se provo a ricordare la prima volta che ho visto il mostro mi appare soltanto la grande casa che ho abitato nei primi cinque anni della mia vita.

In realtà non so cosa di quelle poche immagini confuse siano veri ricordi: una grande cucina, un antro vasto e buio, una stanza d’ingresso dove ogni tanto si apriva la porta ed entrava mastro Mattè, il carbonaio nero che apparteneva al mondo fantastico dei fratelli Grimm, delle loro fiabe paurose; oppure l’infermiera, un donnone enorme che mi afferrava in modo brutale per farmi l’iniezione. Le trappole per i topi. E lui, lo scarafaggio, da qualche parte che guizzava.

Ho invece un ricordo nitido di una visione di 20 anni dopo. Abitavo assieme ad un amico un appartamento in una zona borghese di Palermo, all’ultimo piano di un decoroso palazzo di epoca umbertina. Il piccolo appartamento era pulito, un po’ civettuolo.

Una sera lo vidi in cucina. Enorme, smisurato. Quattro cinque volte più grande del più grande che avessi mai visto. Non avevo mai osato immaginare una cosa simile.

Avevo chiuso subito la porta della cucina. Angelo, con cui dividevo l’appartamento, era nella sua stanza e non aveva paura degli scarafaggi. Entrò lui in cucina, guardò, rovistò dappertutto. Era scomparso. Mostruosamente grande come aveva fatto a sparire?

Scarafuni scarafuni ti scripentu lu tistuni, scarafazzu scarafazzu cu li pedi ti scrafazzu, andava declamando Angelo che era un giovane uditore brillante, solidamente laico, che preferiva Sciascia a Kafka.

Di notte, era estate, mi era venuta sete. C’era quel caldo umido che a volte satura l’aria, riempie i pori di Palermo e fa ansimare i cani, fa sudare le mani fra lenzuola. Mi ero fatto coraggio, ero uscito al buio dalla mia stanzetta, avevo acceso la luce del corridoio e mi era avvicinato cautamente alla porta chiusa della cucina. L’avevo aperta con una tensione crescente, con gli occhi ancora sbarrati nel buio, e avevo acceso la luce.

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Poi Angelo mi avrebbe detto che l’urlo era stato quello di un donna, anzi di una checca isterica. Sulla parete bianca lo avevo visto guizzare per un attimo: era grande come un topo. Ma neppure quella volta la bestia venne trovata.

A 50 anni la fobia mi sembrava fosse quasi scomparsa. A partire da un certo periodo invece di ucciderli ero riuscito a buttarli fuori dal balcone con la scopa, essenzialmente per amore di mia moglie, e forse per espiare anche delle atrocità commesse su di loro e che non riesco a rimuovere. Questo ero riuscito a farlo, anche se a Linosa, chiuso in un bagno, avevo urlato di nuovo.

***

In Guatemala non ne avevo visti. Qualcuno in Messico, per strada, nelle bettole, ma a Xela non ne avevo visti. Nei due hotel dove avevo alloggiato, per strada, nella sede della ong dove Fernanda lavorava, a casa di Fernanda, nei caffè e nei cessi dei ristoranti: non soltanto non ne avevo visti, ma soprattutto non ne avevo ‘avvertito’ la presenza.

Non ci pensavo neanche un po’ agli scarafaggi. Ero riuscito facilmente a mettermi in contatto con Fernanda, la quale ricordava vagamente di un fotografo italiano che sarebbe arrivato per un réportage sulle comunità degli indios presso le quali operava la sua ong.

Fernanda era stata disponibile ed efficiente. Aveva informato, si era informata, e mi aveva comunicato il giorno stesso del mio arrivo a Xela che sarei potuto andare nei villaggi lunedì, accompagnato da un loro collaboratore.

Era un martedì. Xela dopo un paio di giorni mostrava tutte le sue poche meraviglie e le sue molte magagne: il vulcano, la grande chiesa barocca ancora diroccata dal terremoto del 1938, lo zocalo dove le donne indie che non parlavano spagnolo venivano a vendere le loro povere cose, una vasta galleria dove ci si riparava dagli acquazzoni frequenti e dove c’era un grande caffè, una spaesante atmosfera liberty. E poi certi tagli di luce la mattina quando il sole splendeva contro il cielo di un blu fauve. Ma le buone cose di Xela finivano qui.

La città era tutto un sali e scendi dove le macchine arrancavano in salita avvelenando l’aria con i getti di fumo nero dei loro vecchi motori anni ’70. Fernanda, che comunque si spostava in bicicletta, spesso metteva la mascherina.
– Vattene a s.Pedro il fine settimana, mi disse. E’ un bel paesino sul lago…
Lei non poteva venire per impegni di lavoro.

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Giovedì mattina, accoltellato da un vento gelido, salii su un autobus che mi lasciò su un grande spiazzo polveroso. Lì avrei aspettato la coincidenza per…

Il sole era adesso alto e riscaldava. Quel posto non aveva però nulla di una stazione di autobus, a parte qua e là gruppi di persone, soprattutto donne indie, sedute per terra circondate dai bagagli. Ai bordi dello spiazzo c’erano delle baracchette dove arrostivano spidini di carne.
Sembrava che tutti stessero lì in un’attesa dalla durata indefinita. Il primo autobus, seguito da un’enorme coda di fumo nero, arrivò dopo mezzora, però non passava per…

L’autobus giusto arrivò dopo due ore di un’attesa che si era via via fatta meno ansiosa e più svagatamente contemplativa. Per pochi minuti mi ero anche addormentato seduto su un bidone, riscaldato dal sole e contento come un gatto. L’ autobus sgangherato si era poi lanciato a capofitto sui tornanti in discesa in un paesaggio sobbalzante di foreste e schegge di cieli blu. Avevo letto di certe sciagure, di autobus precipitati su quei tornanti senza paraurti guidati da autisti ubriachi.
S. Pedro è in effetti un bel posto e vale il viaggio, anche l’attraversata sul lago con le acque follemente agitate.

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A poche centinaia di metri dall’attracco un bungalow pulito, circondato da un prato inglese, a un ottimo prezzo. Molto meno caro dei due squallidi hotel di Xela.
Il lago è circondato dalle montagne, fra le quali giganteggia un vulcano.

Il paese si arrampica con il passo lento e ostinato degli indios fra le case basse in pietra bianca che lastrica anche le strade fino alla chiesa grande affacciata su una piccola piazza. Nella chiesa i molti cani randagi entravano e uscivano come i cristiani. Di mattina quella pietra bianca abbagliava.

Non c’erano turisti, ma una piccola comunità di eredi dei vecchi hippies aveva colonizzato i dintorni del piccolo porto, dove sorgevano alcuni ristorantini, dei locali, piccoli hotel destinati probabilmente ad un turismo locale.

La seconda sera di un soggiorno fin troppo tranquillo, sorseggiavo una birra seduto sul marciapiedi davanti ad uno di questi locali. Lì sul lago il clima era straordinariamente mite anche di sera. Non avevo neppure messo i calzini. Ad un tratto vidi quattro suore. Provenivano da una stradina che portava verso una zona periferica, dove sorgevano diverse costruzioni in legno, altri locali sopra il lago, e che la sera si perdeva nel buio. Le suore girarono a destra, cominciando la salita sulla strada principale di s. Pedro.

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Con la bottiglia di birra in una mano e la macchina fotografica nell’altra mi alzai di scatto e le seguii.
Per fotografare bene bisogna essere lucidi, non lasciarsi sopraffare dalla fretta; bisogna però decidere, scegliere cosa fare al momento giusto, o meglio almeno una frazione di secondo prima del momento giusto.

Decisi di abbassarmi, di inquadrarle dal basso. Poggiai un ginocchio per terra. Uno, due, tre, quattro. Cinque scatti. E’ stato subito dopo il quinto scatto, ma questo l’ho saputo soltanto un mese dopo, guardando il negativo sviluppato a Città del Messico.

Uno smisurato scarafaggio, grande come quello di Palermo – forse lo stesso pensai poi quella notte – guizzava impazzito dentro la scarpa.
Un attimo dopo sul duro selciato della strada cadevano la bottiglia di birra, la macchina fotografica e la scarpa, mentre io saltellavo terrorizzato sull’altro piede.

Il mostro era di nuovo sparito, non lo vidi. Avrebbe anche potuto non essere uno scarafaggio ma io ero certo che lo fosse. Quando finii di riallacciarmi la scarpa mormorando frasi sconnesse controllai il funzionamento della macchina fotografica. Scattai, tirai la pellicola che trascinò lo scatto successivo. Funzionava.

***

La deforestazione in quella zona stava diventando un problema. Gli indigeni tagliavano gli alberi per avere terra da coltivare, ma la terra non bastava mai.
– Mettono al mondo troppi figli , disse Josè, più sono poveri più figli mettono al mondo.
Non si fidava del mio spagnolo incerto e perciò parlava lentamente, ripetendo ogni tanto qualche frase. Come un bravo professore. Guidando il furgone che sobbalzava sull’asfalto sconnesso voleva essere sicuro che capissi tutto. Mescolava economia, geografia, politica, sociologia, storia e altro ancora, mentre accompagnava le parole con ampi gesti delle mani. La sua guida era lenta, ragionata, come le sue parole.

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Anche lui era un indio, e a trenta anni si stava laureando in economia politica mentre intanto lavorava per la ong di Fernanda. Aveva una moglie e un figlio.
Josè mi spiegò che il Guatemala negli anni della guerriglia era stato invaso dai predicatori evangelisti, tutti statunitensi, che cercavano di convincere gli indios delle comunità a schierarsi con l’esercito, a denunciare i guerriglieri, a collaborare con i torturatori di Montt.

La chiesa cattolica invece stava tradizionalmente dalla parte dei poveri, spesso li aiutava ad organizzarsi, a lottare.

– Sulle montagne, disse Josè, con i guerriglieri c’erano anche dei sacerdoti.
Eppure sosteneva che il razzismo era ancora diffuso e violento. Per il venerdì santo a Xela si svolgevano due processioni, una degli indios e una dei ladinos, mentre gli omicidi razzisti, soprattutto di ragazze, erano frequenti.

Nel razzismo della minoranza contro gli indigeni mi sembrava si manifestasse un di più di violenza che sfuggiva a qualunque spiegazione che non fosse tautologica: il razzismo che spiega se stesso, che si autofonda. Ma Josè mi aiutò a capire che se il razzismo non poteva essere spiegato aiutava a spiegare: gli indios del Guatemala, quella quindicina di etnie che costituiscono la maggioranza della popolazione del paese, si identifica anche con la parte più povera e oppressa proprio perché sono indios, perché lo sono rimasti dopo mezzo millennio di dominio spagnolo. La loro mancata assimilazione culturale e spesso perfino linguistica costituisce da sempre la premessa dell’oppressione sociale e militare che hanno subito. E la sua ferocia.

Secondo Josè il razzismo finiva infatti con l’essere alimentato dagli stessi effetti che produceva, in un circolo vizioso: l’emarginazione economica e sociale accresceva e irrigidiva quella separazione culturale da cui veniva alimentata. L’isolamento linguistico, soprattutto delle donne, accentuava la loro marginalità sociale.

– D’altra parte non parlano spagnolo perché sono troppo poveri per potersi permettere di mandare a scuola i bambini, che già da piccoli danno comunque una mano nei lavori in campagna.
Solo su un punto cattolici ed evangelici convergevano, nell’avversione all’uso dei contraccettivi. Perciò facevano tanti figli. Per ignoranza, diceva Josè.
Dopo un po’ si mise a raccontare anche qualcosa della sua storia.

– C’era Montt al potere quando la mia famiglia è fuggita in Messico, L’esercito rastrellava e loro, i militari di Montt, ammazzavano, torturavano, bruciavano i villaggi. Siamo fuggiti di notte e siamo rimasti quattro anni in Chiapas. Avevo allora 14 anni. Quando siamo tornati non era rimasto niente, si erano presi la casa, la terra, tutto.

Mi disse che c’erano molti libri che raccontavano la storia di quegli anni, della guerriglia, della repressione, alcuni erano buoni, ma le innumerevoli storie individuali, diceva, non le avrebbe scritte nessuno.

Poi, dietro una curva il paesaggio cambiò; in basso, ai bordi della strada ormai sterrata scorrevano grumi di case distanziati da pezzi di campagna coltivata. Scendendo dal furgone ci accolse un gruppo di donne con le quali Josè avrebbe discusso del progetto che la ong stava realizzando.

Una di queste donne, la rappresentante della comunità, indicò verso la valle, in basso, dove un denso vapore bianco saliva lentamente sfilacciandosi fra i rami della boscaglia. Parlava spagnolo, diceva che certe volte doveva andare anche cinque volte al giorno laggiù a prendere l’acqua.

Non esistevano sentieri in quelle campagne fumose strappate alla foresta, solo camminamenti costituiti da sottili strisce di terra non coltivata. Terra fangosa quando pioveva. Ogni giorno, come le altre donne del villaggio, faceva avanti e indietro per prendere l’acqua in un ruscello, decine di chilometri. In famiglia erano in otto.

Accanto a casa sua la ong stava costruendo una cisterna per raccogliere l’acqua piovana. Ma i lavori andavano a rilento. Troppa burocrazia e pochi finanziamenti.
La nuvola bianca che era prima in fondo alla vallata aveva ormai raggiunto la strada ed entrava a folate attraverso la piccola finestra aperta su un interno quasi buio. Xela, con i suoi edifici pretenziosi, con il suo grande zocalo deserto e buio alle nove di sera e il suo micidiale inquinamento da traffico automobilistico, sembrava lontanissima nello spazio ma anche nel tempo.

La casa della donna era un piccolo cubo di travi. Dentro c’era una sedia, qualche sgabello, una panca, un tavolo e un grande letto. Per scattare senza il flash bisognava accendere l’unica lampadina che pendeva dal soffitto sconnesso. C’era nelle loro pose rigide, austere, una specie di riserbo, o forse era timidezza o diffidenza, che sembravano emanare da una dignità risentita. Da un’ offesa.
Su quegli altopiani pochi anni prima c’era stato l’inferno.

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Adesso quel cerchio di emarginazione culturale e sociale che alcuni cercavano di spezzare emigrando negli Stati Uniti, rischiando il deserto, le pallottole di gomma dei militari statunitensi alla frontiera, i banditi, sembrava essersi richiuso sulle comunità travolte e ancora traumatizzate dalla repressione dei militari.

Con Josè tornammo su altre due volte, visitando altre comunità. La sera in hotel ripensavo agli scatti che andavo realizzando, alla luce che filtrava fra le travi delle loro baracche, ad una baracca con i bambini seduti per terra che era una scuola, ai volti di alcune donne che mi mostravano orgogliose i loro telai a mano. Oppure ne parlavo la sera con Fernanda ed i suoi amici. Mi sembrava che stessi raccogliendo dell’ottimo materiale.

L’ultima volta che ci incontrammo Josè mi presentò alle donne di una comunità come un ‘companero’. Poi in macchina mi raccontò di quando era nella guerriglia. Aveva deciso che di me poteva fidarsi.
– E’ stata la mia scuola, disse, una grande scuola. Loro erano armati e anche noi ci siamo armati. Solo che noi usavamo le armi solo contro i militari, mentre loro le usavano contro la popolazione disarmata, inerme. Qui, fra la gente di questi villaggi c’era organizzazione, fiducia, speranza: in Nicaragua la rivoluzione aveva vinto, da noi invece alla fine c’è stato un massacro. Duecento mila vittime dall’inizio della guerriglia fino agli accordi di pace. La mia prima università è stata la montagna, la guerriglia.

Prima di salutarmi mi regalò il libro di un sacerdote, Ricardo Falla, ‘Masacres en la selva’.
– Fallo leggere, mi disse.

Mai io avevo soprattutto il reportage, un buon reportage da far vedere. Per le donne delle comunità, per lo stesso Josè, le mie fotografie, la mia testimonianza erano importanti. In alcune comunità mi avevano accolto con lunghi discorsi e ringraziamenti, come fossi un giornalista importante. Per loro ‘la testimonianza’, in questo caso la mia, era preziosa: bisognava che fuori, in Europa, si sapesse cosa era successo e come vivevano. Rientrando in Messico ero soddisfatto. Al peggio avrei pubblicato le foto sulla mia rivista. Ma questa volta ero convinto che il lavoro potesse anche interessare qualche importante magazine.

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Dopo un paio di settimane di tranquille e un po’ svagate riprese fotografiche nel grande paese di Villa e di Rivera, arrivai a a Puebla, una gradevole città a tre ore di autobus da Città del Messico.
Mi piaceva perdermi in quella città piena di sorprese, dove il moderno riusciva ad armonizzare i suoi azzardi architettonici con il generale impianto coloniale della città. Mi piaceva entrare in un piccolo caffè quasi buio già nel primo pomeriggio, ordinare una Corona e leggere un romanzo di LLosa in lingua originale.

In quel locale c’era un pianoforte e il terzo giorno che vi entrai c’era un uomo che lo suonava. Suonava bene, improvvisando, mescolando jazz e passaggi che sembravano degli improvvisi di Schubert. Questa volta ordinai un caffè e rimasi ad ascoltare. L’unica luce che entrava nel locale attraverso una piccola finestra illuminava il pianista, sfumando nella penombra l’ambiente che sembrava retrocedere anche nel tempo.

Scattai come sempre in semiautomatico, con un diaframma intermedio, ma mi sembrò che il clic della macchina fotografica fosse stato troppo veloce. C’era poca luce e con quel diaframma il clic avrebbe dovuto essere più lento. Riprovai subito impostando manualmente un tempo molto lungo. Ma il clic era sempre quello, fra un sessantesimo e un centoventicinquesimo di secondo.

Tornando verso l’hotel rivivevo come in un incubo l’istante in cui parecchi giorni prima la mia Canon era caduta sulla dura pietra del lastricato di S. Pedro assieme ad una bottiglia di birra, alla mia scarpa e allo smisurato scarafaggio che non avevo neppure visto.

Avevo pensato di restare ancora un paio di giorni a Puebla. L’indomani mattina ero invece sull’autobus per Città del Messico, e verso mezzogiorno con due rulli presi a caso ero entrato in uno dei tanti negozi – laboratorio dove in un’ora sviluppavano i negativi.

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Un’ora lunga da far passare. Nella grande città inondata dal sole, immersa nel suo passato arcano e nel suo presente fragoroso, tutto girava come una grande giostra, i mariache inseguivano con le loro pazze corse le auto, i mendicanti ripetevano la loro preghiera davanti le chiese, i cani randagi giravano in cerca di cibo oppure ciondolavano dietro a qualche ubriaco. Ma per me da quando avevo fotografato il pianista a Puebla il tempo era stato come risucchiato indietro, bloccato nell’istante in cui la bestia si era materializzata fra la scarpa e il mio piede. Non riuscivo più a fotografare.

Il primo negativo era perfetto, il secondo completamente bianco. Calcolai mentalmente quanti potevano essere i negativi persi. Sette oppure otto, calcolai. Tornai all’hotel presi tutti i negativi e li portai al laboratorio.

Due ore dopo avevo preso le otto pellicole completamente bianche e le avevo buttate in un contenitore della monnezza. Il reportage non c’era, tutto il mio viaggio non aveva avuto senso.
Da allora non ho più visto il grande, smisurato scarafaggio, che per tre volte mi ha visitato. L’ultima volta facendomi perdere uno dei migliori reportage che credo di aver mai fatto.

Questa è la storia disgraziata, avvenuta nel 2004, di uno scarafaggio e di un centinaio di immagini che si sono perse, che credevo di avere salvato e che invece si perdevano come tutte le altre che ci vengono incontro e che spariscono. Ne ricordo due in particolare: un controluce dentro la nuvola di fumo nero nello spiazzo delle attese, a due passi dalle sagome curve in avanti di due viaggiatori, e quell’ inverosimile ritratto di famiglia nella poverissima stamberga degli indios, alla luce scialba di una lampadina che pendeva dal soffitto sconnesso.

Vecchi, donne bambini, cani, tutti solenni e miserabili, con negli occhi ancora l’orrore o la semplice meraviglia.

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