L’intervento internazionale in Libia: un dibattito dal retrogusto coloniale

L’attacco aereo del 19 febbraio sulla città di Sabrata, nella Libia occidentale, ha infiammato il già accesso dibattito sull’imminenza di un nuovo intervento militare della NATO in Libia

di Chiara Pagano, tratto da Osservatorio Iraq

TRA INGERENZA ESTERNA E INTERVENTO ARMATO

Il raid aereo lanciato il 19 febbraio da due bombardieri americani contro la città libica di Sabrata, 70 Km a ovest di Tripoli e a 100 Km dal confine con la Tunisia, pur avendo come obiettivo un centro d’addestramento di militanti da’eshisti in cui, secondo informazioni non verificate fatte trapelare dalle autorità statunitensi, risiedeva anche Noureddine Chouchane, presunto ideatore delle stragi del Bardo e di Sousse in Tunisia, ha avuto il più ampio risultato di infiammare il già acceso dibattito sull’imminenza di un nuovo intervento militare dell’Alleanza Atlantica in Libia.

Vale la pena ricordare che nell’attacco, rivendicato dagli Usa come un nuovo successo nella lotta al terrorismo internazionale, sono rimaste uccise 40 persone, in maggioranza giovani militanti dello Stato Islamico di nazionalità tunisina ma anche due ostaggi serbi. Inoltre, le autorità di Tobruq, ovvero quelle riconosciute dalla maggior parte degli stati che compongono la Comunità Internazionale, denunciando come le autorità statunitensi non abbiano cercato il coordinamento o comunicato in anticipo l’operazione agli interlocutori locali, hanno condannato l’atto unilaterale statunitense come “una chiara e fragrante violazione della sovranità statale”.

Subito la stampa internazionale ha evocato l’inizio dell’intervento in Libia, a dispetto del rifiuto di molti governi della regione, primi tra tutti quello Tunisino ed Algerino, di fornire il proprio appoggio ad un eventuale ingerenza armata della Nato, viste le potenzialità di proiezione oltre confine della crisi libica. Le notizie su un imminente avvio delle operazioni militari hanno continuato a rincorrersi per diverse settimane, nonostante l’amministrazione Obama avesse più volte chiarito di non avere alcuna intenzione di promuovere operazioni militari di ampia portata in Libia, come testimoniato anche dalle dichiarazioni di alcuni responsabili della Difesa statunitense pubblicate proprio il giorno prima dell’attacco a Sabrata dal Daily Beast.

Intento di Washington era infatti agire in continuità con una prassi di ingerenza già sperimentata ripetutamente e con successo in Libia.

Si ricorderà l’intervento delle Forze speciali statunitensi per la cattura, nell’ottobre 2013, del sospettato qaedista Abu Anas al-Libi, con il beneplacito dell’allora Primo Ministro Ali Zeidan e la successiva messa in discussione della sua già precaria leadership politica a seguito del sequestro organizzato ai suoi danni da alcuni miliziani di al-Qaeda come segno di ritorsione. A questo episodio sono poi seguiti diversi altri raid aerei.

Nel luglio 2014 furono uccisi con il sostegno delle autorità di Tobruq, che della lotta al terrorismo hanno fatto il proprio cavallo di battaglia, otto militanti di Ansar al-Shari’a e Ahmed Abu Khattala, ricercato per l’attacco dell’11 settembre 2012 alla sede diplomatica statunitense di Benghazi in cui aveva perso la vita l’ambasciatore Christopher Stevens. A giugno 2015 un altro attacco aereo fu sferrato dall’aeronautica militare statunitense per uccidere il jihadista algerino Mokhtar Belmokhtar. In ultimo, lo scorso Novembre a Derna, l’ennesimo raid statunitense ha avuto come obiettivo il leader dello Stato Islamico in Libia, Wissam Najm Abd Zayd al Zubaydi, meglio conosciuto come Abu Nabil.

Il raid aereo di febbraio a Sabrata, tuttavia, si distingue da quelli sopra citati perché, avvenuto senza alcun tipo di coordinamento con le autorità di Tobruq, ha fatto emergere in modo eclatante la crisi dei rapporti delle forze politiche libiche presenti sul territorio con la Comunità internazionale.

L’Alta Camera dei Rappresentanti, fin dalla sua elezione nel giugno 2014, è stata costretta a riunirsi a circa 1000 Km dalla Capitale a causa del mancato riconoscimento del suo mandato da parte di alcuni membri dell’ex parlamento di Tripoli, il Congresso Generale Nazionale che, sostenuto da alcune potenti milizie tripolitane, in maggioranza di ispirazione islamista, si è rifiutato di cedere il potere dando il via allo sdoppiamento delle istituzioni libiche che aveva gettato il paese nel caos. Nel corso dell’ultimo anno e mezzo, pur rimanendo l’unica istituzione riconosciuta dalla maggior parte degli interlocutori statali internazionali, il Parlamento di Tobruq ha visto numerose defezioni mentre, insieme al governo al-Thinni con sede ad al-Bayd’a, con sempre maggiore decisione si schierava a sostegno delle operazioni del generale Khalifa Hafter che in Cirenaica ha promosso una guerra senza quartiere alle milizie islamiste. Questi sviluppi hanno fatto perdere alle autorità di Tobruq molti dei già limitati consensi che riscuotevano all’interno del paese.

Ciononostante, a dare il via alla crisi dei rapporti tra Comunità Internazionale e autorità di Tobruq, più che il costante declino della loro già dubbia legittimazione nel perimetro circoscritto della regione orientale al paese, è stato il ripetuto rifiuto della Alta Camera di accordare la fiducia al governo di Unità nazionale guidato da Fayez al-Serraj, nato a fine dicembre in Tunisia dopo la sigla del testo definitivo dell’accordo di Skhirat, in Marocco. Risultato della mediazione portata avanti negli ultimi due anni prima dall’inviato delle Nazioni Unite Bernardino Leon e, dal 4 novembre 2015, da Martin Kobler tra 200 membri della società libica provenienti o in varia misura alleati dei due governi oggi presenti in Libia, il governo Serraj ha dovuto fare i conti fin dalla sua nomina con un forte deficit di legittimazione.

I membri dei due parlamenti libici che hanno partecipato ai dialoghi di Skhirat erano infatti volontari e non agivano in ragione di un mandato loro attribuito dai parlamenti di appartenenza.

Inoltre, in contemporanea con le sedute del vertice di Skhirat, altri membri dei due governi rivali hanno scelto di perseguire una soluzione unitaria alla crisi libica autonoma dalla mediazione Onu. In nome del contrasto all’avanzata dello Stato Islamico dalla sua roccaforte nella città dell’ex rais, Sirte, sul confine tra la Tripolitania e la Cirenaica, verso i più importanti giacimenti della cosiddetta “Mezzaluna petrolifera” libica, i negoziati del cosiddetto “dialogo Libia-Libia” il 5 dicembre avevano portato alla sigla di una dichiarazione di intenti.

Questa dichiarazione prevedeva la formazione di una commissione di dieci membri (cinque da ogni parlamento) che avrebbe dovuto nominare un primo ministro e due vice-presidenti transizionali, incaricati di condurre il paese a nuove elezioni legislative entro due anni e, nonostante non le sia stata riconosciuta alcuna legittimità dalle Nazioni Unite, mostra inconfutabilmente che alcune personalità libiche difficilmente accetteranno di riconoscere il risultato della mediazione Onu.

International Crisis Group, alla vigilia dell’incontro ospitato a Roma il 13 dicembre tra i rappresentanti libici presenti a Skhirat e i paesi che hanno sostenuto la mediazione Onu per la formazione del Governo di unità nazionale, ha a tal proposito pubblicato uno statement in cui notava come la Comunità internazionale, riconoscendo un nuovo governo privo del necessario sostegno all’interno del paese, rischiasse di condannarlo ad “essere irrilevante”. E infatti, se è vero che solo una richiesta ufficiale di un Governo di unità nazionale legittimerebbe una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzi un intervento Nato in Libia a supporto dell’esercito locale contro la minaccia del Califfato, il parlamento di Tobruq, dopo aver negato la fiducia al primo esecutivo Serraj il 25 gennaio, per le votazioni successive, che si sono svolte fino alla prima metà di marzo, ha visto i deputati boicottare il voto di fiducia al nuovo esecutivo.

GEOGRAFIE DI DOMINAZIONE DI STAMPO NEO-COLONIALE

L’attacco statunitense a Sabrata, se a livello dei proclami ufficiali ha visto le caute reazioni dei governi alleati – Francia, Gran Bretagna e Italia in testa – rispetto all’eventualità di un massiccio intervento militare in Libia, sul piano pratico, ad una più attenta analisi, ha avuto una serie di risultati che hanno trasceso il perimetro del cosiddetto “chirurgico intervento” contro il centro di addestramento da’eshista nella città.

Venuta meno la possibilità di una legittimazione legale internazionale nell’immediato dell’intervento Nato in Libia, gli avvenimenti del 19 febbraio hanno infatti impresso un’ulteriore accelerazione al processo attraverso il quale la Comunità internazionale, agitando il fantasma dell’avanzata dello Stato islamico alle porte dell’Europa, giustifica un’irruzione graduale ma sempre crescente negli equilibri politici interni al paese con strategie di stampo neo-coloniale.

Questi sviluppi, purtroppo, non dovrebbero stupire chi, in Italia, ha seguito le evoluzioni della copertura data dai maggiori media nazionali alla transizione e all’attuale crisi libica. Specialmente nell’ultimo anno, da quando cioè si sono fatti più espliciti i riferimenti dei governi europei e internazionali ad un possibile nuovo intervento della coalizione internazionale in Libia per contrastare l’avanzata di Da’esh, non è stato infrequente leggere analisi che, senza alcuna reale riflessione sul passato coloniale italiano, si riferivano alla Libia come “la Quarta sponda” e all’imminenza di un intervento militare nel paese come “una spedizione oltremare”.

La posizione dell’Italia rispetto ad eventuali piani di intervento in Libia è per ragioni storiche, oltre e forse prima che geografiche, un nodo diplomatico e politico di estrema delicatezza. Come avvenuto però già in occasione del dibattito sull’intervento Nato del 2011, l’Italia pur rivendicando un rapporto privilegiato con la Libia assume ambigue posizioni di attendismo salvo poi schierarsi con gli alleati quando l’intervento è ormai inevitabile.

Più che svilupparsi a partire da una riflessione post-coloniale, il dibattito italiano sull’intervento in Libia recupera sempre una neppure celata retorica coloniale.

Alle amnesie di lungo periodo sulle violenze e le atrocità perpetrate ai danni del popolo libico durante l’occupazione e la cosiddetta “pacificazione” della colonia, si sovrappone un amnesia più recente: quella che consente alle autorità politiche italiane di aspirare pubblicamente ad un ruolo di leadership nell’eventuale missione internazionale Nato in Libia, senza che si apra un dibattito sulle contraddizioni che ne deriverebbero rispetto agli impegni che l’Italia sottoscrisse con la Libia in occasione Trattato italo-libico di amicizia, cooperazione e partenariato siglato il 30 agosto 2008.

Negli articoli dal 2 al 5, infatti, l’Italia si impegnò allora al rispetto dell’uguaglianza sovrana dei due Stati, a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica della controparte, a non esercitare ingerenza nei suoi affari interni e a non usare né concedere l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile nei confronti della controparte, oltre a perseguire la soluzione pacifica di eventuali controversie. Impegni, questi, disattesi già nel 2011 con la partecipazione alla coalizione Nato contro il regime di Gheddafi, e che sono stati ignorati, di fatto, anche quest’anno con la ripetuta minaccia dell’uso della forza e la più recente concessione delle basi di Sigonella e Trapani per far partire i droni che da mesi ormai sorvolano lo spazio aereo libico.

Se è vero che il conflitto tra la coalizione internazionale Nato e il regime di Gheddafi ha portato ad una controversa dichiarazione di sospensione del trattato in questione, più volte in questi anni, e da ultimo a fine dicembre dello scorso anno, sia da parte italiana che da parte libica è stata espressa la volontà di riattivare il trattato. Un’intenzione che resterebbe dunque in contraddizione con le dichiarazioni in cui l’Italia afferma di voler guidare il contingente Nato in caso di un nuovo intervento della coalizione internazionale nel paese.

In molti dei giornali nostrani che hanno proposto analisi circa il possibile coinvolgimento armato dell’Italia nell’ambito di una coalizione internazionale anti-da’esh in Libia, i pareri contrari all’intervento sono stati motivati non per la predilezione di una soluzione diplomatica a sostegno del dialogo tra le forze politiche in campo, ma per la convinzione di non avere forze armate ed equipaggiamenti sufficienti a vincere.

In un articolo pubblicato su Repubblica il 26 gennaio e riportato dalla rivista italiana di geopolitica, LIMES, Giuseppe Cucchi, consigliere militare del Presidente del consiglio e rappresentante militare dell’Italia alla Nato, l’Unione Europea e all’Organizzazione di sicurezza militare e cooperazione politica dell’Unione Europea Occidentale, dichiarava di rimpiangere i tempi in cui Giovanni Giolitti poteva permettersi di lanciare la campagna di Libia raddoppiando il contingente di centomila soldati considerati necessari dall’allora Ministro della Guerra Paolo Spingardi. Concludeva poi il suo articolo scrivendo: “Forse è un bene il fatto che il processo di riappacificazione delle fazioni contrapposte vada tanto per le lunghe: se non altro così avremo tutto il tempo per prepararci!”.

VERSO UN PIANO DI SPARTIZIONE DELLA LIBIA?

L’apparente convergenza dei governi alleati sulla scelta di subordinare qualsiasi intervento Nato ad una richiesta esplicita di aiuto da parte del Governo di unità nazionale, se da una parte serve a iscrivere in un quadro di legalità internazionale un eventuale secondo impegno militare dell’Alleanza atlantica in Libia, d’altra parte non ha impedito l’ingresso e il coordinamento di alcuni reparti delle Forze speciali statunitensi, francesi e probabilmente britanniche e giordane nel paese. Una presenza, questa, che l’attacco a Sabrata ha sdoganato.

Il quotidiano francese Le Monde, in un articolo del 24 febbraio, ha fatto scoppiare un caso nazionale riportando delle indiscrezioni del Ministero della Difesa che confermavano operazioni segrete delle forze speciali francesi in Libia, definendole l’unica strategia possibile di intervento in assenza “di un quadro favorevole ad una guerra aperta”. Il Ministro della Difesa francese, Le Drian, ha in seguito aperto un’inchiesta per violazione del segreto di Stato, confermando così di fatto la notizia.

Negli stessi giorni, l’Italia ha rinnovato la rivendicazione di un ruolo guida nella coalizione internazionale anti-Da’esh nell’eventualità di un intervento in Libia che viene però presentato come ultima ratio. Questa, secondo le notizie ad oggi disponibili, dovrebbe mobilitare un contingente di cinquemila soldati nell’eventualità di un intervento a terra, seguendo uno schema di ripartizione della Libia in aree d’influenza che molto ricorda il Compromesso Bevin-Sforza. Il piano, proposto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1949 dai ministri degli esteri britannico e italiano quando si discuteva la decolonizzazione della Libia, prevedeva le amministrazioni fiduciarie dell’Italia sulla Tripolitania, della Francia sul Fezzan e della Gran Bretagna sulla Cirenaica, ma venne bocciato il 18 maggio dello stesso anno, quando venne preferita la soluzione della piena indipendenza dell’ex-colonia, proclamata ufficialmente alla fine del 1951.

Anche secondo il nuovo piano di intervento internazionale in Libia, infatti, la Tripolitania verrebbe posta sotto il controllo dell’Italia, che nella regione occidentale ha i maggiori interessi economici, vista anche la necessità di tutelare l’Eni che vanta una presenza massiccia nei maggiori giacimenti petroliferi e gasdotti dell’area. La Cirenaica cadrebbe invece sotto controllo inglese e il Fezzan sotto controllo francese. Il progetto condiviso dalle forze alleate circa un intervento in Libia riguarda l’invio di contingenti di terra con la sola funzione di supporto e addestramento di armati libici. Nel caso di una richiesta esplicita da parte delle autorità libiche di unità nazionale, pertanto, l’intervento occidentale si concretizzerebbe di fatto nell’atto di armare e addestrare uomini delle milizie libiche, i quali verrebbero ancora una volta cooptati negli apparati di sicurezza nazionale su base regionale o locale.

In questa strategia non emerge affatto l’intenzione di rispondere al problema della proliferazione di armi e gruppi armati che, fin dall’inizio della transizione e ben prima dell’espansione di Da’esh nel paese, avevano posto i più importanti ostacoli alla realizzazione di un progetto politico unitario per la nuova Libia.

Si prospetta dunque uno scenario in cui, se pure l’intervento Nato consentisse di contrastare efficacemente l’espansione dello Stato Islamico e di neutralizzarne la presenza nel paese, non si risolverebbe e anzi verosimilmente si aggraverebbe il problema dello strapotere militare esercitato dalle milizie locali che da sempre hanno resistito ad una centralizzazione unitaria del processo di transizione.

Questa prospettiva dovrebbe allarmare l’opinione pubblica internazionale se si considera che, eccezion fatta per il caso delle forze speciali britanniche la cui presenza in territorio libico, trapelata già su alcuni giornali arabi e internazionali, non è ancora stata confermata da fonti ufficiali, le forze speciali francesi, statunitensi e verosimilmente italiane ad oggi presenti in territorio libico stanno di fatto svolgendo quelle funzioni di addestramento degli armati locali libici che il comando militare Nato assumerebbe in caso di intervento.

Nel cono d’ombra che si crea tra i proclami di non intervento della diplomazia pubblica e le mosse di una diplomazia segreta che promuove l’intervento di forze speciali e servizi segreti nonché l’utilizzo di droni, diventa complicato promuovere un dibattito informato sull’opportunità di un’ingerenza internazionale che rischia di rispondere all’emergenza costituita dall’avanzata di Da’esh con strategie di breve periodo in grado, se possibile, di aggravare ulteriormente i precari equilibri non solo interni alla Libia ma anche regionali.

La divisione della Libia in tre distinte zone di intervento coincidenti con le tre regioni del paese e spartite tra le forze speciali occidentali in ragione di specifici interessi nazionali, oltre a riproporre pedissequamente pratiche di penetrazione territoriale di stampo coloniale, era stata condannata poco più di una settimana fa come estremamente rischiosa dall’ex Premier Romano Prodi, oggi presidente della commissione congiunta tra Nazioni Unite e Unione Africana per le operazioni di peacekeeping in Africa.

Prodi ha infatti sottolineato il potenziale di destabilizzazione di tale strategia rispetto al ruolo giocato dalle uniche due istituzioni unitarie ad oggi presenti in Libia: la Compagnia petrolifera nazionale e la Banca centrale.

La prima riesce ancora a gestire le risorse energetiche che hanno fatto del Paese un rentier state e la cui produzione, a causa dei conflitti tra milizie e del blocco dei giacimenti petroliferi che ne è derivato, è oggi drammaticamente scesa ad un terzo del livello raggiunto prima della rivoluzione. La seconda si occupa di elargire sussidi e stipendi ai cittadini libici, senza distinzione tra appartenenze locali, etniche, di affiliazione politica o militare. Per questo, Banca Centrale e Compagnia Petrolifera Nazionale giocano un ruolo non indifferente nel tenere insieme il paese.

Di parere del tutto opposto si è invece dimostrato l’ex amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, che parlando della Libia come una “finzione” ha suggerito che bisognerebbe puntare “ad una stabilizzazione parziale” attraverso l’appoggio di un “governo regionale in Tripolitania” in grado di far appello alla Comunità internazionale per legittimarne l’intervento che Scaroni definisce di primaria importanza per l’Italia dal momento che, ha dichiarato al Corriere della Sera, la Libia “è casa nostra”.

Facendogli eco, anche il deputato di maggioranza in quota Pd, Ernesto Preziosi, ha auspicato la promozione di un “lavoro politico-ideologico e di intelligence che necessariamente comporta anche la presenza nei teatri di guerra” per la creazione di tre distinti governi nelle tre storiche regioni libiche in vista della formazione di un’unione federale.

UNA POSSIBILE SVOLTA?

Tra fine marzo e l’inizio di aprile si è aperta una nuova fase della lunga e instabile transizione libica, in cui pare che la diplomazia internazionale abbia riportato un successo affatto scontato. Già il 13 marzo, i governi alleati occidentali avevano accettato la richiesta avanzata dal Consiglio Presidenziale riunitosi a Tunisi sotto la guida di Fayez Serraj di sospendere qualsiasi rapporto con le forze politiche libiche che non riconoscono il governo di unità nazionale e di incoraggiarne l’insediamento a Tripoli.

Questa scelta è stata finalizzata a sostenere il discorso pubblico della Comunità Internazionale che dichiara di voler privilegiare la soluzione politica all’intervento militare unilaterale, ma nel farlo ha ignorato le minacce espresse dal Primo Ministro del governo non riconosciuto di Tripoli, Khalifa al-Gweil, e dal Presidente del Congresso Generale Nazionale, Nuri Abu Sahmain, sostenuti dalle milizie di Misratah guidate da Salah Badi. Quest’ultimo, vicino al misuratino Ibrahim ben Ghashir, presidente del Consiglio degli anziani e dei saggi dell’importante città costiera Tripolitana e alleato alle milizie di Tajura, aveva infatti promesso di promuovere una lotta senza quartiere all’esecutivo nato sotto l’egida dell’Onu che, dai media schierati con le autorità di Tripoli è stato a più riprese descritto come un governo imposto dall’esterno.

Il 30 marzo, dopo una serie di tentativi di insediarsi nella Capitale promossi nei due giorni precedenti e falliti a causa della chiusura da parte della autorità tripoline dello spazio aereo libico e dell’aeroporto di Mitiga, il Governo di Unità Nazionale è finalmente riuscito ad accedere a Tripoli via mare, arrivando su una fregata della marina libica al porto di Abu Sittah. Con una scelta che ricorda molto quella effettuata dall’Alta Camera dei Rappresentanti all’inizio del suo “esilio” presso il porto di Tobruq, Fathi Ben Aissa, consigliere del Primo Ministro incaricato Fayez Serraj, ha confermato che, in attesa di sedimentare il proprio controllo sulla Capitale, il Governo di Unità Nazionale stabilirà il proprio quartier generale temporaneo presso il porto di Abu Sittah

Lì è infatti stato accolto dal ministro dell’Interno del governo di riconciliazione, Arif al Khouja, ma anche da Abdel Rahman al Tawil, nuovo presidente della commissione per la sicurezza, e dal capo degli ufficiali della marina, il colonnello Salem Rahuma. D’altra parte, Serraj ha potuto far affidamento sul sostegno ottenuto delle restanti forze di Misratah, predominanti all’interno della Libyan Revolutionaries’ Operations Room.

La Operation Room, prima compattamente schierata con la coalizione di Fajr Libya nata a sostegno del governo e del Parlamento di Tripoli, in opposizione all’Operazione Dignità, lanciata dal generale Khalifa Hafter dopo i conflitti esplosi a Tripoli a seguito delle contestate elezioni del 25 giugno 2014, nell’ultimo anno si è schierata infatti col fronte del dialogo patrocinato dall’Onu, ad ulteriore dimostrazione della sempre mutevole dinamica degli equilibri libici tra forze politiche e milizie locali.

Alle minacce delle autorità di Tripoli e delle milizie a loro fedeli, si sono contrapposte le manifestazioni di sostegno all’esecutivo di Serraj espresse sia da forze politiche e milizie locali di alcune importanti città della regione occidentale che da buona parte della popolazione di Tripoli. Grazie all’intermediazione di Abdel Rahman al Tawil, inoltre, già il 31 marzo Khalifa al-Gweil e Nuri Abu Sahmain hanno lasciato la Capitale per tornare alle rispettive città di origine, Misratah e Zwarah dopo che, il giorno prima, anche il Gran Mufti di Tripoli, al-Ghariani, aveva incitato i Fratelli Musulmani a non essere causa di ulteriori spargimenti di sangue. Ciononostante, il primo aprile al-Gweil e Abu Sahmain sono stati aggiunti dall’Unione Europea ad una lista di circa 17 individui sottoposti a sanzioni internazionali, insieme ad Agila Saleh, Presidente dell’Alta Camera dei rappresentanti che, a Tobruq, continua a non votare la fiducia al governo Serraj.

Mostrando una notevole familiarità con le dinamiche libiche di distribuzione e contrattazione di potere e influenza, Serraj dal suo arrivo a Tripoli ha cercato il dialogo e la mediazione non solo con le autorità che sovrintendono la gestione dei fondi sovrani libici all’estero, la Banca Centrale e la Compagnia petrolifera nazionale, ma anche con numerosi leader religiosi e autorità municipali tripolitane, per guadagnarne la fiducia e, dunque, l’appoggio. Tuttavia, il riconoscimento ottenuto da dieci città della Tripolitana non può comunque considerarsi risolutivo.

Se il 5 aprile il Congresso Generale Nazionale (GNC) di Tripoli ha deciso di sciogliersi e ricostituirsi come Consiglio di Stato sotto la guida di Abdurrahman Shater, in conformità con quanto previsto dal Libyan Political Agreement in virtù del quale era nato anche il governo Serraj, rimane problematico il riconoscimento ufficiale del nuovo governo da parte del Parlamento di Tobruq, nonché l’effettivo ruolo che verrà giocato da Khalifa al-Gweil che, il giorno dopo aver rassegnato le proprie dimissioni, il 6 aprile, ha pubblicato un annuncio con il quale ha chiesto ai membri del suo governo di rimanere in carica e disconoscere il neonato Consiglio di Stato. Lo stesso giorno anche Nuri Abu Sahmain ha condannato la creazione del Consiglio di Stato e minacciato di denunciare alla Corte Suprema l’illegittimità del Libyan Political Agreement.

Bisogna dunque augurarsi che, al netto delle difficoltà riscontrate nell’ottenere un’effettiva legittimazione e pieni poteri, il Governo nato dalla mediazione delle Nazioni Unite continui ad aprire nuovi canali di ascolto delle varie anime che compongono il panorama politico e sociale libico. Se così fosse, infatti, riemergerebbe la speranza che attori politici libici, rivendicando anziché rinnegare i dispositivi politico-sociali per la risoluzione delle controversie peculiari al proprio contesto paese, possano riappropriarsi della gestione della crisi in corso.

Facendo leva sul comune interesse a riavviare una transizione istituzionale condivisa dal maggior numero di attori possibile, il Governo Serraj potrebbe così rimescolare le carte in tavola rivelandosi il tramite più efficace per scongiurare anziché legittimare il più volte invocato intervento armato della Nato nel paese.

DINAMICHE DELLE STRUTTURE DI POTERE LOCALI E POTENZIALITÀ DI STABILIZZAZIONE

Le problematiche complesse della transizione libica sono state spesso interpretate all’interno della cornice generica e generalizzante del tribalismo anarchico, che nei primi anni dieci del ‘900 era stato evocato come uno dei più grossi limiti ad uno sviluppo politico della società libica, giustificando la retorica della missione civilizzatrice come motore del progetto coloniale.

Alla struttura tribale della società libica, evocata in modo metastorico, senza valutarne le evoluzioni e gli adattamenti alla realtà contemporanea, sono stati ricondotti quasi tutti gli attori sociali che occupavano l’agone politico libico post-Gheddafi, eccezion fatta per minoranze etniche (Amazigh, Tebu e Tuaregh) e associazioni di carattere non religioso nate con l’inizio della transizione. Queste si sono infatti appropriate di temi e linguaggi vicini all’immaginario democratico che l’Occidente veicola di se stesso attraverso organismi e organizzazioni internazionali che sostengono l’autodeterminazione dei popoli indigeni, l’uguaglianza di genere e diritti delle minoranze.

In questo modo sono riuscite a presentare la propria mobilitazione e le proprie domande di protagonismo politico ed economico nei termini di una mobilitazione della Società Civile, dietro la quale si celavano spesso le medesime dinamiche di competizione per il controllo delle risorse che interessavano tutti gli altri attori locali libici.

Nelle letture che imputano alla struttura tribale della società libica l’attuale crisi politica e di sicurezza, si ignora deliberatamente il fatto che, cinque anni fa, quando in maniera peraltro controversa l’intervento delle aviazioni britannica e francese contro il regime di Gheddafi inaugurò l’intervento Nato in Libia, il paese era già attraversato da una dolorosa guerra civile che contrapponeva città lealiste e rivoluzionarie.

Inoltre, il coordinamento di una molteplicità di attori rivoluzionari mobilitatisi per ragioni differenti nel Consiglio Nazionale di Transizione, creato poco dopo le prime proteste scoppiate tra il 15 e il 17 febbraio del 2011, non è sopravvissuto alla sconfitta del comune nemico da abbattere. L’intervento della Nato è stato determinante per la vittoria delle forze rivoluzionarie. Tuttavia, la dichiarazione dell’inizio della transizione, a giungo del 2012, e le prime elezioni democratiche della Libia indipendente, che nel luglio 2012 avevano portato alla formazione del Congresso Generale Nazionale incaricato di guidare il paese nel processo transizionale, non segnò mai la fine della guerra civile tra lealisti e rivoluzionari.

Lo scontro tra vincitori e vinti si è soltanto frammentato con l’apertura di teatri locali di scontro tra milizie cittadine, all’interno dei quali sono state perpetrate gravi violazioni dei diritti umani estesamente documentate e denunciate da Amnesty International. Una transizione pacifica e condivisa, che avrebbe richiesto un processo di riconciliazione nazionale tra esponenti e sostenitori del deposto regime e forze rivoluzionarie, è stata inoltre resa ancor più complicata dal progressivo sfaldamento dello stesso fronte dei rivoluzionari su storiche rivalità regionali e locali.

Queste ultime, spesso imputate alla struttura della società libica, sono in realtà piuttosto il portato delle strategie di divide et impera di cui l’Italia coloniale prima e il regime di Gheddafi poi si sono serviti per controllare un paese la cui unificazione territoriale è stata realizzata solo nella metà degli anni ’30 del ‘900, dopo la violentissima campagna di pacificazione portata avanti nelle colonie di Tripolitania e Cirenaica dal regime fascista per compiere l’impresa coloniale iniziata in epoca liberale.

La parcellizzazione del conflitto civile libico in una serie di conflitti locali minori che hanno aggravato la posizione delle istituzioni centrali, più che dalla natura tribale della società è stata determinata dall’improvvisa apertura di spazi di contrattazione politica impensabili nell’epoca della Jamahiriyya.

All’interno di questi nuovi spazi di azione politica, molteplici attori sociali cercano di guadagnarsi il maggior numero di dividendi ricavabili dall’accesso a risorse economiche e di potere che gli erano state precluse dal precedente regime.

Per innescare una dinamica cooperativa tra autorità centrale e autorità locali, in cui effettivamente determinante è il ruolo delle qabile la cui leadership occupa di fatto i consigli municipali, sarebbe stato determinante integrare i meccanismi tribali di risoluzione dei conflitti in un sistema formale garantito dal supporto statale, valorizzandone l’efficacia piuttosto che demonizzandoli orientalisticamente come residuo di una società retrograda.

Questa occasione è stata mancata dalle autorità libiche a più riprese tra la metà del 2013 e la crisi definitiva consumatasi nel paese dopo le elezioni dell’estate del 2014. Fallendo nell’approvare i decreti attuativi della legge sulle amministrazioni locali approvata già dal Consiglio Nazionale di Transizione nel 2012, infatti, le autorità della transizione hanno perso l’occasione di garantirsi un maggiore controllo, indiretto ma effettivo, su teatri locali altrimenti potenzialmente generatori di spinte centrifughe difficili da contrastare. Questo ha aggravato l’instabilità interna del paese che gli osservatori internazionali continuano invece ad imputare alla frammentazione tribale della società libica.

All’inizio del 2014, il rifiuto condiviso dalla maggior parte della popolazione libica di continuare a riconoscere una Parlamento ed un Governo giunti alla scadenza del proprio mandato senza risultati politici concreti, incapaci persino di produrre gli strumenti legislativi necessari all’indizione di nuove elezioni in grado di garantire l’alternanza politica, ha sancito l’apice della crisi di legittimità delle forze politiche libiche. Considerare questi sviluppi può forse contribuire a reinserire l’attuale cortocircuito della transizione libica nella sua dimensione politico-istituzionale, un aspetto del tutto trascurato nelle analisi che fanno leva sul tema del tribalismo e che potrebbe invece costituire un utile punto di partenza per riflettere in maniera oggettiva sulle possibili evoluzioni future del processo di state e nation building tutt’oggi in corso in Libia.

È la crisi politica e delle istituzioni della transizione che ha permesso agli attori locali, e in particolar modo alle milizie armate, di prendere il sopravvento nella transizione. Se le milizie non sempre e non necessariamente coincidono con le qabile, queste ultime hanno svolto e continuano ad esercitare una funzione politica in virtù di una legittimazione all’interno della propria comunità di appartenenza che, al contrario di quanto avviene nei meccanismi strutturati dell’autorità statale, viene costantemente ricontrattata e riconfermata: non ha scadenza e si rinnova ogni giorno.

Per questo in Libia il potere locale sopravvive all’instabilità delle istituzioni statali centrali.

In una società che storicamente si è caratterizzata per la presenza di autonomi detentori del potere che cercano una ratifica della propria autorità locale dal centro, e per tale riconoscimento competono tra di loro e con lo stesso potere centrale, emergono strutture di autorità che non si conformano alle modalità con cui l’occidente concepisce il potere politico e le sue articolazioni ma di cui andrebbero compresi e valorizzati i punti di forza e il potenziale di stabilizzazione.