Assedia il tuo assedio

Una città, una narrazione collettiva, mille storie e tanti linguaggi

di Cinzia Massaro

Gerusalemme è tante cose, sensazioni, sentimenti, belli e brutti, magia, claustrofobia, spiritualità e effimerità, sopraffazione e amore, e, di nuovo magia, claustrofobia alla presenza delle mille divise che sono in giro per la città, magia perché nonostante tutto camminando fra quelle mura, in quelle viuzze, tra i tanti gradini, bande di gatti in cerca di cibo, gente tanto diversa tra loro, si respira libertà, si, la libertà.

Succede spesso no? Di sentire qualcosa in maniera forte e prorompente proprio laddove manca. Questo e mille altre cose è Gerusalemme, i suoi odori, i suoi rumori, i suoi incontri, i suoi sorrisi, i suoi tetti.

Delle mille fotografie che si susseguono davanti agli occhi, dei mille volti, dei mille luoghi, dei mille odori che mi ricordano questa città, c’è un’istantanea che resta indelebile, mentre tutte le altre piano piano sbiadiscono i contorni.

Girovago per la città vecchia e respiro un’aria insolita, non è quella vivace, in fermento, piena di vita e di vite in cui ci si imbatte di solito. La maggior parte dei negozi è chiusa, altri hanno le saracinesche abbassate a metà; i venditori palestinesi sono stati esortati dai soldati israeliani, presenti in gran forza, a farlo.

Sì, la frase è sempre la stessa, la stessa che ci si sente ripetere all’aeroporto di Tel Aviv, ai check point, “it’s for your own security”, “è per la tua sicurezza”… Si respira tensione, i volti sono scuri.

In pochi attimi vedo orde di coloni armati che girano in lungo e in largo nel quartiere musulmano, sventolando bandiere israeliane e cantando a squarciagola inni in ebraico. Festeggiano “la riunificazione”, ostentano l’ennesima manifestazione di forza, con tutta l’arroganza che gli è propria, con tutta l’arroganza che ho visto solo qui.

March of flags, la marcia delle bandiere è quella a cui assisto. La parata di ebrei ultranazionalisti che attraversano la città vecchia sventolando bandiere israeliane, la parata naturalmente culmina nel quartiere musulmano. E’ il Jerusalem Day.

Si celebra la “riunificazione” di Gerusalemme. La riunificazione sotto il controllo israeliano dopo la Guerra dei Sei giorni. La guerra è finita con un cessate il fuoco l’11 Giugno 1967. E a partire da Maggio 1968, il governo ha proclamato il Jerusalem Day nuova festa nazionale.

Un momento e la mia attenzione viene subito catturata da un bambino palestinese che esce di corsa da una viuzza con una bandiera palestinese e corre sventolandola… fino a che un soldato israeliano si avvicina e gliela strappa con violenza.

Così comincia la tensione tra i soldati armati e il bambino che rivuole la sua bandiera. I soldati gli gridano di andarsene via, lui risponde con veemenza, resta sempre vicino, non indietreggia di fronte ai soldati israeliani. Gli grida contro, anche lui, con forza, con coraggio. Continuano così.

Si avvicinano degli adulti palestinesi, li separano, parlano al bambino…ma il bambino non molla, rivuole la sua bandiera, alla fine si avvicina di nuovo al soldato, ma non può fare nulla, prova a difendersi, gli tira un calcio, poi scappa via veloce e si perde in una delle stradine della città vecchia.

Storie di ordinaria resistenza penso, e, uscendo dalla città vecchia mi ripeto quasi ad alta voce, Sorry Mr. Gurion, the old may die, but the young will never forget!

“The old will die, the young will forget”. Pare che il primo ministro israeliano Ben Gurion si fosse espresso così, in particolare, riguardo i rifugiati palestinesi (Nel corso degli anni si è poi detto che, benché racchiudesse le sue “speranze”, questa frase gli fosse stata attribuita erroneamente).

Fatto sta che dopo ormai 68 anni niente è più lontano dal vero. I Palestinesi non dimenticano, non dimenticano le migliaia di Palestinesi rifugiati, non quelli della Cisgiordania, e nemmeno i Palestinesi di Gerusalemme, i “privilegiati” che in cambio di una cittadinanza di serie B e dell’assoluta mancanza di servizi possono muoversi senza dover sempre elemosinare un permesso.

Appena fuori dalle mura, ancora un imponente spiegamento di forze dell’esercito israeliano, a piedi, a cavallo. L’esercito è lì a “proteggere” l’arroganza, a tenere lontano uno sparuto gruppo di palestinesi che con qualche striscione prova a fare quello che provava a fare il piccolo con la sua bandiera, a resistere, ad esistere. Provano a ”sventolare” un’idea, provano a sventolare l’assedio. Assedia il tuo assedio diceva il poeta Mahmoud Darwish.