1986 – L’atomo al rogo

Il 26 aprile di trent’anni fa, nell’allora Unione Sovietica, l’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl

di Giovanni Borrello

A trent’anni di distanza, l’incidente nucleare di Chernobyl continua a terrorizzare generazioni di persone e a uccidere. Quel sabato notte del 1986 in URSS non ci fu solo un incidente in una centrale nucleare: fu l’inizio di un incubo che nemmeno il recente disastro di Fukushima è riuscito a cancellare. Perché Fukushima è stata una “disgrazia imprevedibile” causata dalla natura (o così si dice); Chernobyl invece fu il frutto dell’incoscienza ponderata e consentita a tavolino dell’uomo.

“Sono convinta che mia figlia si è ammalata per Chernobyl… ma chi lo sapeva che quella non era semplice rugiada?” Parla un’anziana contadina del Basso Piemonte. Oggi, nel 2016. Sua figlia se n’è andata pochi anni fa per un osteosarcoma. La sua voce è piena di rimorso, di una rassegnazione rabbiosa. Una rabbia che dopo tanti anni le scalda ancora il petto, la rende paonazza e la infervora. Una rabbia contro se stessa. “Non avremmo dovuto mangiarla. Qualcosa avevamo letto forse… non mi ricordo… la televisione poi s’è messa a parlare della cosa… ma i primi giorni che era successo… chi poteva saperlo?”.

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Tutto intorno la cascina i campi dell’azienda agricola di famiglia, in un paesaggio che racconta di secoli di duro lavoro, fatica e più recentemente di un riscatto notevole grazie al vino che si produce dai vitigni rosso sangue di cui sono costellate le colline. Nessuna fabbrica inquinante, nessuna autostrada, le falde sono pulite. Ed è forse questo che ha convinto la signora Adele che a portarsi via sua figlia sia stata la nube radioattiva che tra aprile e maggio 1986 aleggiò sopra l’Italia. Dopo tanti anni, il panico che aveva serpeggiato tra i coltivatori dopo gli annunci inquietanti sui media in quelle settimane primaverili, le era improvvisamente rimbalzato nella sua testa appena la figlia pronunciò la parola tumore. “Qui non c’è inquinamento. Cos’altro può essere stato?” E se ne dà la colpa: perché era stata lei a portare dall’orto la verdura “proibita”.

Chernobyl se lo ricordano bene in tanti. Le “leggende” sulle conseguenze di quel catastrofico incidente – frutto dell’imperizia dei tecnici nucleari che “stressarono” il reattore con un test di resistenza che aveva molto del patologico e poco dello scientifico – trovano ancora banco nelle discussioni malinconiche sugli anni verdi.

“Ricordo che tra fine aprile e inizio maggio il sole al tramonto aveva un colore strano”, racconta chi all’epoca era un giovane insegnante, pendolare ligure che ogni mattina dal finestrino del vagone regionale che lo portava a lavoro si godeva l’alba sul mare. “Avevo visto sorgere il sole molte volte… eppure in quei giorni sembrava tutto avvolto in una rarefazione innaturale”. Poi venne diffusa la notizia: cosa rara per l’Unione Sovietica. E ciò dava l’idea della gravità del disastro. Finlandia, Norvegia e Svezia furono le prime nazioni occidentali ad accorgersi della fuga radioattiva e ad avvisare gli altri stati europei: i rilevatori geiger dei paesi scandinavi avevano rilevato picchi preoccupanti di radionuclidi.

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Così, poco alla volta, prese a circolare la notizia: il reattore numero 4 della centrale V.I. Lenin – ultimato nel 1983 – era “esploso” e un vasto incendio aveva preso a divorare l’impianto. La popolazione di Prypjat, la città operaia a tre chilometri dal sito elettrico, assieme a quella del più grande centro di Chernobyl venne fatta evacuare in massa: si parla di qualcosa come 360.000 persone forzatamente allontanate dalle proprie case e trasferite altrove.
Ma il danno era ormai fatto: negli anni seguenti le stime parleranno ufficialmente di “soli” 65 morti (la maggior parte dei quali erano pompieri che si adoperarono per tappare la fuoriuscita della nube mortale sigillando in un sarcofago di cemento il reattore) e migliaia di malati di cancro. Le cifre sono discordanti: 4.000 secondo l’ONU (che divulgò i dati nel febbraio 2003 nel Chernobyl Forum), forse 60.000 per il Partito Verde Europeo e addirittura 6.000.000 per Greenpeace. Il tumore alla tiroide divenne quasi endemico tra i bambini e i ragazzi che nel 1986 erano nel pieno del loro sviluppo fisico. Da allora numerosi reportage fotografici ci hanno raccontato di centri specializzati, reparti ospedalieri affollati di neonati deformi e adulti stremati dalla radioterapia: un vero e proprio campionario di teratologia in cui arti elefantiaci e malformazioni deturpanti hanno influito non poco sul l’opinione pubblica.

Visitare il Museo Nazionale Chernobyl a Kiev equivale a immergersi nella zona grigia dell’umanità: allestimenti ad effetto, cimeli, materiale iconografico, documenti. E creature deformi imbalsamate o sotto formaldeide. Come i musei di Hiroshima e Nagasaki, ma forse più inquietante: perché vicino a noi.

Per gli apocalittici tutto era già scritto: nell’Apocalisse di San Giovanni si dice: “Cadde dal cielo una grande stella, ardente come un torchio; e cadde sopra la terza parte dei fiumi, e sopra le fonti delle acque. E il nome della stella si chiama Assenzio. E molti uomini moriranno di quelle acque, perciocché eran divenute amare”. Chernobyl vuol dire proprio Assenzio.

L’ITALIA NELLA NUVOLA RADIOATTIVA

Il Governo italiano, travolto da un’onda mediatica dirompente, ordinò una profilassi straordinaria: la gente acquistava solo latte a lunga conservazione, acque minerali in bottiglia, bibite e prodotti surgelati. I produttori di latticini ordinarono agli allevatori da cui si rifornivano di dare alle bestie – rigorosamente tenute chiuse nelle stalle – fieno conservato, non fresco. Dagli scaffali dei supermercati sparì tutto tranne i cosiddetti “prodotti sospesi”: lattuga, spinaci, catalogna, cima di rapa, broccoletti, verze, cavoli, prezzemolo, basilico, erbe aromatiche, cicoria, tutte le insalate, carciofi, bietole, erbette, finocchi, sedano, porri. Tonnellate di verdure venivano date alle fiamme nei campi o nelle piazzole delle discariche: le fiamme purificatrici dovevano ripulire l’atmosfera da un immondo nemico. Alcuni medici consigliarono a donne gravide da poche settimane di abortire, scatenando ire funeste di cattolici e movimenti di opinione pro-vita. Ancora una volta il corpo delle donne al centro di un conflitto ambientale, come dieci anni prima a Seveso.

Leggenda e superstizione hanno avuto un ruolo fondamentale nelle settimane successive al disastro.

Sembra strano ma un fenomeno come la radioattività, apparentemente una delle evidenze meno ascientifiche della realtà, scatenò una reazione diffusa assolutamente non moderna. Il panico e la disinformazione fecero ricadere l’avanzata civiltà occidentale del 1986 – con i suoi Concord e i suoi PC – nel medioevo più nero. E se quel decennio conosceva già bene le conseguenze di una psicosi sanitaria – si pensi alla reazione nevrotica innanzi all’AIDS – con l’allarme Chernobyl la “massa” fece un salto di qualità: se prima l’untore era un singolo individuo (omosessuale o tossicodipendente) ora era uno Stato. Anzi, lo Stato nemico per antonomasia. In pochi giorni lo spettro del “terrore rosso” che ebbe il suo boom negli anni del maccartismo statunitense risorse, in piena epoca di distensione tra i due blocchi. I russi l’avevano fatta grossa: non si trattava più di un film di fantascienza come “Radiazioni BX: distruzione uomo” o “The Day After”. La cortina di ferro iniziò ad essere abbattuta con Chernobyl: la strategia di apertura al mondo del presidente Gorbaciov fu quasi una scelta obbligata. Glasnost’ e Perestrojka sono un po’ figlie della tragedia.

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L’Italia raggiunta dalla nube mortale era un Paese che del nucleare sapeva poco o nulla. E in generale non aveva investito troppo su quella fonte energetica, sebbene tra gli anni Cinquanta e Sessanta iniziarono i lavori della centrale di Latina (inaugurata nel 1963) – all’epoca l’impianto più potente d’Europa – cui seguirono Sessa Aurunca e Trino (l’impianto più potente al mondo nel 1965). Il record storico di apporto nucleare al fabbisogno energetico italiano fu nel 1983: 4%. Poco e nulla se si pensa che ad oggi circa il 40% dell’energia italiana deriva da fonti rinnovabili. E questo benché il “faraonico” Piano Energetico Nazionale del 1975 aveva predetto la nascita di decine di nuove centrali negli anni a seguire. Un’ipotesi visionaria: non solo si prospettava una crescita continua dell’economia italiana – proprio mentre era in atto un piano di austerity conseguente alla crisi petrolifera del 1973 – ma anche perché i forti interessi sulle fonti fossili non ammettevano cambi di rotta nella produzione: le centrali termoelettriche ad olio combustibile e a carbone erano un business troppo grande per essere rapidamente affossato e sostituito. E poi, bisognava ammetterlo, troppi geologi erano concordi nel ritenere la Penisola un territorio “instabile”, soggetto a troppi terremoti. A questo si aggiunga la cattiva fama che l’incidente di Three Mile Island in Pennsylvania – e il contemporaneo successo del film “Sindrome cinese” con Jane Fonda, Michael Douglas e Jack Lemmon – gettò sulle lobby atomiche, sconfessando anni di propaganda “pro-atomo” (“Nucleare per la pace” era lo slogan dei governi atomfriendly).

Dal 1979 infatti le azioni di protesta contro l’insediamento delle nuove centrali nucleari – ma anche di quelle a carbone, che proprio in quel tempo incominciavano ad essere mediaticamente nell’occhio del ciclone sia per l’impatto radiologico che per quello più noto dell’inquinamento pulviscolare – divenne un appuntamento fisso nelle città individuate come siti “interessanti”.

Gli indiani metropolitani, armati di vigore e bastoni, manifestavano in piazza e davano l’assalto alle forze dell’ordine in posizione antisommossa. Centro nevralgico di queste proteste fu Montalto di Castro, in quella terra laziale compresa tra Tarquinia e Civitavecchia già martoriata da grandi impianti energetici. Tutta la cittadinanza del comprensorio venne coinvolta – perfino i tombaroli, i trafugatori di tombe etrusche, contribuivano alla causa vendendo reperti per raccimolare soldi in favore del movimento antinucleare – e la vicenda si trascinò fino al 1987, quando con il referendum dell’8 novembre, promosso dai Radicali, venne abrogata la norma secondo cui un ente locale non poteva opporsi alle decisioni di installare una centrale nucleare sul proprio territorio superato un certo periodo (assieme all’eliminazione della legge detta “penosa”, che garantiva un risarcimento in denaro da parte dell’ENEL alle comunità che ospitavano centrali a carbone e nucleari: un obolo per il disturbo arrecato…). La “marea verde” – che già si era mostrata determinata nel grande corteo del 10 maggio 1986 svoltosi a Roma – dilagava.

BOOM! L’AMBIENTE HA UN TARGET!

Chernobyl cambiò tutto: in Italia due fatti sono ancor oggi la testimonianza più longeva della febbrile attività di coinvolgimento dell’opinione pubblica. La nascita della Federazione Nazionale delle Liste Verdi (poi nel 1990 Federazione dei Verdi), il 16 novembre 1986 a Finale Ligure, e la “verdizzazione” dei mass media. Con Chernobyl si comprese che c’era un target molto interessato alle tematiche ambientali: settimanali e periodici (come ad esempio L’Espresso o Panorama) presero ad organizzare rubriche fisse su inquinamento e stili di vita ecosostenibili.

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Gli anni Ottanta sono stati il decennio della paura atomica: iniziato sotto la cappa dell’incidente alla centrale di Three Mile Island in USA, è proseguito tra alti e bassi con le tensioni internazionali della guerra fredda. La paura della radioattività era ovunque: programmi televisivi, film e articoli di periodici. Perfino nella musica pop: la famosa hit parade Vamos a la playa narrava di una fuga da un mondo vittima del fallaut. Loretta Goggi e Mango – che le aveva scritto il testo – non potevano sapere che la frase “Questo vento non potrà più farmi male” della celebre hit Io nascerò (sigla del Festival di Sanremo 1986), sarebbe suonata tristemente beffarda: proprio nel vento stava la morte. Lo aveva scritto anche Moravia nel suo “Diario europeo” (e sottolineato ancora di più ne “L’inverno nucleare”): l’aria che si respirava non era più quella di Ulisse… Umberto Tozzi in Eva cantava di “stormi di nucleari avvoltoi” e a Eugenio Finardi non restava che invocare ancora – dal 1978 – un extraterrestre che lo portasse via…

Ma c’era anche chi riuscì a convivere con la “bomba”, come si auspicava il Dottor Stranamore: c’era la moda post-atomica (vestiti dai colori sgargianti tra il fricchettone e il Like a virgin di Madonna) descritta così bene nei reportages di Pier Vittorio Tondelli, mentre i bambini italiani grazie alle reti Fininvest e alle scelte di palinsesto di Carlo Freccero familiarizzavano sempre più con i super robot giapponesi paladini della libertà che erano il tentativo del Giappone del boom tecnologico di lasciarsi alle spalle la tragedia di Hiroshima e Nagasaki esorcizzandosi in quei difensori intergalattici sovrumani.

Eppure Hiroshima e Nagasaki erano sempre lì, come memento.

Ogni tanto qualcuno se ne accorgeva, magari guardando Videomusic e beccando il videoclip di Hiroshima di Sandra. La tragedia si faceva spettacolo in un mix di pose divistiche e effetti speciali. Una reinterpretazione al passo coi tempi: Alberto Moravia, appassionato spettatore di Videomusic, aveva colto il senso di quella “ballata da fine del mondo”. Lui, il Moravia che era diventato parlamentare a Bruxelles con un unico obiettivo: cercare di dare un contributo alla questione del disarmo. Hiroshima aveva “agito” in lui. Visitando il luogo del bombardamento, lui che aveva girato mezzo mondo, capì che non poteva più semplicemente ritenersi uno scrittore, ma un essere vivente potenzialmente minacciato dalla follia atomica. I suoi ultimi scritti risentirono di questa riflessione: il suo profilo “ecologico” si fece via via sempre più evidente.

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Perché gli anni Ottanta furono un decennio sì ammaliato dal mito edonistico della Milano da bere, ma che conviveva con uno stile “green” molto influente: dopo la nascita dei gruppi di difesa dell’ambiente negli anni Settanta, la coscienza civile aveva trasformato un modo di fare freak e hippy in un insieme di valori borghesi.

Gite scolastiche ecofriendly, attenzione all’alimentazione e buone pratiche di comportamento (“Non si buttano cartacce per terra”) plasmarono una generazione che per la prima volta risultava sensibile alle dinamiche ambientali: valga come esempio il cartoon dei Puffi.

Guardare i simpatici omini blu lottare contro il temibile Gargamella – dopo aver canticchiato la sigla di Cristina D’Avena (“I Puffi sanno che un tesoro c’è/ è il fiore accanto a te/ Madre Natura pensa sempre a noi/ ed i Puffi sono tutti amici suoi […] puoi aiutarla certamente se lo vuoi” mentre il coro inframmezzava con: “Tutto cambierà/ la nostra Terra guarirà”) – voleva dire approcciarsi in maniera divertente al problema ambientale. Curioso poi che proprio un cartone francese sia stato il più influente divulgatore di coscienza ambientale, mentre la Francia di Mitterand non aveva ancora rigettato la possibilità di effettuare test atomici nel sottosuolo del Pacifico. Il sonno della ragione aveva generato Mururoa, ma il tepore catodico di fine secolo non aveva certo destato dall’incubo: solo nel 1992 la Francia decise di cessare i test.

Dopo Chernobyl la radioattività entrò anche nelle case degli italiani: il dibattito energetico contemporaneo e successivo al referendum del 1987, dopo aver preso di mira le centrali a carbone (che erano considerate anche su riviste come Le Scienze, negli editoriali del suo storico direttore Felice Ippolito, responsabili dell’immissione di isotopi radioattivi molto più pericolosi di quelli rilasciati da una centrale nucleare) si concentrò sul terribile radon, elemento radioattivo che si concentrava nelle case. Ma bastava “aprire un po’ di più le finestre” per essere salvi.

Così, che ci resta di quel pezzo di anni Ottanta? L’amara constatazione che i “bambini di Chernobyl” – ragazzi e ragazze che venivano ospitati dalle famiglie italiane negli anni successivi l’incidente per “far loro respirare un po’ d’aria buona” – sono stati probabilmente tra i primi profughi ambientali figli di un danno umano; e la più tranquillizzante notizia che oggi, 2016, abbiamo un po’ meno Chernobyl in noi. L’emivita (il tempo che ci mettono gli atomi per decadere in un altro elemento) del cesio-137, l’isotopo radioattivo sprigionato dal disastro, dura trent’anni. Trent’anni son passati. Se siamo ancora qui, siamo forse un po’ più salvi…

 


L’immagine di Pripyat in apertura è una fotografia di Babak Fakhamzadeh tratta da Flickr in CC

Le immagini di Chernobyl all’interno dell’articolo sono fotografie di Stefan Krasowski tratte da Flickr in CC