Gerusalemme è una bugia

Una narrazione collettiva, una città, tanti linguaggi, mille storie


di Saverio Fanfulla

Io e i miei compagni di viaggio avevamo appena superato i controlli ad un check point ed eravamo diretti a casa, la nostra meta ogni fine giornata, Gerusalemme.

Eravamo su un pullman, passammo direttamente seduti il posto di controllo con un soldato che passava nel corridoio, ci chiedeva i passaporti, abbassava gli occhi su di esso e li rialzava come per accertarsi che l’immagine sul documento coincidesse con il viso del passeggero che gli era di fronte.

Fu un giorno pesante, la sveglia suonò alle sei e affrontammo lunghe camminate per risparmiare pochi spiccioli per la cena e di conseguenza tutto ciò comportò un collasso generale a fine giornata dovuto anche a quella strana reazione chimica che si manifesta con la fine della tensione.
Insomma, ci addormentammo tutti ad eccezione dei passeggeri arabi che “gridavano” con chi gli era seduto accanto o con il telefono poggiato all’orecchio.

Le mamme cullavano i loro figli stanchi di aspettare e, nel frattempo, cantando una timida ninna nanna fecero addormentare anche me.

Fui svegliato di colpo da una frenata, il pullman accostò, spense i motori; ricordo che in quel momento riuscii a vedere il cartello con su scritto Jerusalem e in lontananza la famosissima spianata delle moschee.

Ero ancora mezzo addormentato e non riuscivo a capire bene cosa stesse accadendo ma, compresi che non si prospettavano dieci/quindici minuti proprio tranquilli quando le mamme di cui prima parlavo, aumentarono il dondolio del loro corpo e coprirono gli occhi ai loro figli quasi a preservarli da ciò che sarebbe accaduto da lì a breve.

Le mamme palestinesi sono dolcissime, sorridenti, meravigliose e la cosa che notai in quel viaggio è che tengono il più vicino possibile i propri bambini al proprio corpo, forse perché la semplicità con cui questi vengono sottratti alla vita e alle loro famiglie è disarmante.

Dicevo, il pullman si fermò e aprì la porta d’ingresso che fece un forte cigolio, mancava un po’ d’olio.
Ero seduto a metà del pullman e alla mia sinistra era chiaro il panorama forse perché adesso cominciavo a prendere coscienza dal sonno, eravamo proprio alle porte di Gerusalemme.

Ormai erano dieci giorni che stazionavo lì, la conoscevo, le mura di David sono inconfondibili, il tetto d’oro era proprio quello, gli ulivi all’entrata erano gli stessi che dieci giorni prima avevo visto mentre per la prima volta entravo in Palestina, esclamando che mi sembrava quasi di non aver cambiato Regione, non avevo dubbi, ero ancora in Puglia.

Cominciai a guardare verso l’entrata con molta curiosità, oggi posso dire, ingenuamente.
Il silenzio si abbatté di colpo e all’improvviso udii dei passi che salivano gli scalini, passi pesanti, rumore di tacco di stivali.

Dopo pochissime frazioni di secondo (che in realtà sembravano un’eternità) spuntò dai primi due sedili una testa quasi rapata, poi una spalla grossa, poi un busto formato e vestito di una mimetica e un antiproiettile che aumentava il volume del suo petto. Era alto, un omaccione sorridente che guarda fino alla fine del pullman in cui noi stavamo viaggiando.

Cominciò a camminare con fare sospetto, il mio cuore arrivò in gola e abbassai lo sguardo per non incrociare i suoi occhi.

Era davanti a me e per quanto avessi potuto abbassare la testa, la mimetica era inconfondibile e lo sguardo che poggiava su di me già da un po’ era così pesante che non potetti far altro che alzare la testa e guardarlo in faccia, come un alunno che non ha studiato e viene chiamato alla cattedra per l’interrogazione.

Mi sorrise, poggiò la sua mano sulla mia spalla e disse: “ Can I see your passport?”.
Abbassai piano la testa che era ancora inclinata indietro a causa dell’altezza del militare israeliano per portare i miei occhi verso la tasca dove era riposto il mio passaporto. Ripercorsi tutto il suo mezzo busto ma mi fermai all’altezza del suo fianco, non abbassai oltre la testa.

Mi fermai lì perché c’era una mitraglietta appesa, ed essendo il corridoio del pullman molto stretto la bocca dell’arma era puntata fra i miei occhi.
Avevo molta paura e rimasi immobile senza saliva per qualche secondo sperando che spostasse il prima possibile quell’arma a penzoloni che dondolava fra i miei occhi.

Mi richiese il passaporto, io ebbi la prontezza di darglielo, lui lo aprì e mi chiese: “Where are you from?”. Io non gli dissi nulla che non ci fosse già scritto sul mio più fedele compagno di viaggio in Palestina. Sorrise e, all’improvviso, gridò: “Italy!”.
Di colpo tutti i bambini presenti sul pullman cominciarono a piangere in braccio alle loro mamme che, in vano, cercarono di calmarli.

La situazione diventò molto movimentata e nervosa, lui, il soldato, cominciò ad avvertire il fastidio delle lagne e gridò puntato il dito verso le donne: “ Shut up”. Ovviamente nulla cambiò, molto peggiorò.
Il maledetto, così lo soprannominai, cominciò a chiedere ai miei compagni di viaggio la loro provenienza e la risposta fu sempre la stessa per tutti: “ Italy … Italy … Italy … Italy … Italy … “.

Quante risate si fece il maledetto sentendo pronunciare il nome del nostro Paese, imitava le nostre voci, non avevo mai odiato così tanto l’Italia.
Poi d’improvviso diventò serio, i passi dei suoi scarponi si ricominciarono a far sentire per il corridoio e quella fottuta bocca della mitraglia si spostò dalla mia faccia e andò ad incontrare quella della persona che mi stava dietro, poi ancora dietro, e ancora …

Si stava dirigendo verso il fondo del mezzo, aveva probabilmente incontrato lo sguardo di un ragazzo dalle sembianze arabe e seduto al centro degli otto sedili posti in coda al pullman.

Lo indicò, lo fece mettere in piedi anche se non ci stava a causa della sua altezza e gli chiese: “ And you, where are you from? “. Il ragazzo capì subito che la sua risposta poteva valergli la libertà, glielo si leggeva sul viso un po’ nervoso e un po’ spaventato.

Provai ad entrare in quegli occhi lucidi e immaginai sapesse che quella maledetta risposta poteva, o non fargli vedere più la sua famiglia, oppure fargliela riabbracciare con la consapevolezza che il suo non fosse più un popolo perché aveva perso di nuovo, perché l’occupante era più forte, perché l’occupante costruiva la sua forza su tante, piccole, ma schiaccianti sconfitte dell’ occupato.
La sua dignità di uomo prevalse sui diritti, sulla resistenza, sull’appartenenza, sulla giustizia, sulle rivendicazioni e disse: “I come from Israel!”.

Il soldato sorrise compiaciuto della risposta, si girò, percorse nuovamente il corridoio e scese. Di nuovo le porte fecero un forte cigolio, mancava dell’olio.

Ripartimmo come se non fosse accaduto nulla, tutto tornò alla normalità; gli arabi tornarono a gridare al telefono o con chi gli stava seduto accanto, le mamme cullavano i loro figli cantando la ninna nanna ed io tornai nuovamente a dormire su quelle magnifiche e soavi note.

Tutto ciò accadde a Gerusalemme, ricordata come crocevia di uomini, culture e religioni. Odiai Gerusalemme nonostante la sua inestimabile bellezza, Gerusalemme è una bugia, un’abitudine. Non è il centro, è un’est e un’ovest divisi da un muro e lì dove esistono muri che separano i popoli c’è sempre qualcosa che rimane nel mezzo, una vita, brandelli di un vestito, la speranza. Questo perché sono stati fatti per essere scalati, ma la verità è che non tutti ce la fanno.