Jerusalem, al-Quds, Yerushalayim

Una città, una narrazione collettiva, tanti linguaggi, mille storie


di Alessandra Abbona

“Cosa significano quelle bandierine arancioni che sventolano sulle auto?” chiedo al tassista che mi sta portando in città, provenendo dall’aeroporto Ben Gurion.

Siamo sulla strada che sale sulle colline di Gerusalemme ovest, e per me è tutto nuovo, da assorbire con gli occhi. Giugno 2005. “Chi sventola la bandiera arancio è contro il disengagement da Gaza”, mi risponde laconico il tassista.

E’ questo il mio primo incontro con Gerusalemme. Ho una settimana per vedere la città, nei ritagli di tempo di un convegno sul cibo nel Mediterraneo, che si tiene nello splendido centro culturale di Mishkenot Shananim, a due passi dal mulino di Montefiore, in faccia alla Città Vecchia.

È il 2005 e la città non è quello che si può dire invasa dai turisti. Giro la Città Vecchia da sola, in pomeriggi assolati e limpidi, mi perdo in strade semivuote, e passo ore incantata a pancia in su, stesa sotto gli archi del museo armeno, a guardare rare nuvole e godere del sole asciutto e del vento.

C’è tempo per salire alla Moschea di Al Aqsa, distesa orizzontale silenziosa e soleggiata, con sparuti gruppi di donne e uomini devoti, e c’è tempo per assorbire il calore verticale delle pietre del Kotel, il sudore e le lacrime mistiche di donne di ogni colore e lingua, ognuna che chiede una propria grazia personale.

È una Gerusalemme in uno stato sospeso, quella che vedo: ognuno vive e racconta la propria versione, e l’immagine che più rappresenta questo parlare senza sentirsi è quella della vigilia di Shabbat, quando gruppi di ebrei haredim della vicina Mea Shearim, si infilano svelti e scontrosi nella porta di Damasco per raggiungere il Muro, e sfiorano senza guardare, uomini e donne palestinesi. Olio e acqua, elementi impermeabili, che non si fondono: quello, appaiono.

L’ultimo giorno del mio viaggio, un’amica moglie di un cooperante svizzero, si offre di accompagnarmi a Betlemme, un tiro di schioppo dalla città.

Con la targa dell’auto che mostra l’appartenenza ad un corpo diplomatico, superiamo veloci i check point, e anche il Muro, che si staglia imponente. In mezz’ora siamo a Betlemme, mentre code di palestinesi impiegheranno ore a fare il nostro stesso percorso.

Questa rimane la mia ultima immagine della città, quell’anno.
Dicembre 2012, sono di ritorno a Gerusalemme per un tour gastronomico. Il mio albergo – di ottimo livello – si trova a nella parte ovest. Il mattino scendo per la colazione: i ragazzi che mi servono sono gentili e belli. E tra loro parlano arabo.

Nel mio itinerario c’è ovviamente il mercato di Mahane Yehuda, dove i sapori e i colori sono quasi totalmente mizrahi, ovvero tipici degli ebrei orientali: iracheni, iraniani e curdi, in particolare.
Siamo nella settimana di Channukkah, e l’atmosfera di festa è ovunque, con mille varietà di dolci sufganiot sulle bancarelle.

Non mi sento curiosa e spensierata come sette anni prima: la zona di Mamilla è un lussuoso shopping centre che sembra alle strade dei centri storici delle città europee, con negozi di marche note, caffè e locali trendy, e tutto questo mi spiazza.

Ritorno nella Città Vecchia e la ritrovo più cupa, benché più affollata. Le emozioni che avevo provato nel 2005 faticano a riaffiorare, olio e acqua di nuovo, anzi di più.

Un giorno sento il bisogno di uscire dai confini cittadini e decido di visitare un caro amico a Abu Gosh, villaggio arabo sulle colline intorno alla città. L’amico è ebreo, ma vive e lavora a fianco dei suoi vicini arabi. Mi impongo questa uscita e apprezzo una serata con persone di varia origine, proprio per fuggire all’atmosfera opprimente e divisiva di Gerusalemme.

L’anno seguente, inverno 2013, sono nuovamente in città, di passaggio per un viaggio di lavoro.
Questa volta i sentimenti sono ancora più diversi, c’è quasi disagio, e comunque sofferenza nel vedere acqua e olio sempre più sfuggenti.

Mi ritrovo, accompagnata da un rabbino che ci ospita per la cena dello Shabbat, al piccolo Kotel, una porzione di Muro occidentale nascosta che solo giovani zeloti, a dire il vero un po’ invasati, conoscono e frequentano. Le vibrazioni del grande Muro si perdono, anzi, si comprimono, in questa viuzza claustrofobica con una sola entrata e uscita.

Ondeggiando e cantando a voce alta, questi ragazzi quasi non si spostano per lasciarci uscire, anzi, sembrano volerci ostacolare.

Il rabbino vive a Rehavia, quartiere residenziale di ville a Gerusalemme Ovest. La cena è impeccabile: lui e la moglie sono americani ed hanno fatto aliyah da una quindicina di anni.
Colti, piacevoli, osservanti: lei indossa la parrucca.
Con loro parliamo di tutto, ma è ancora olio e acqua.

Io però so che non è tutto così: l’ho visto a Haifa, a Jaffa, a Beer Sheva, in alta Galilea. L’olio e l’acqua si mescolano, si possono mescolare, e dare vita ad emulsioni interessanti.
A Gerusalemme no, tutto è più difficile.

Il nostro autista, Mazen, è palestinese, di Gerusalemme Est. Ci porta in giro per tutto il paese. Quasi non capisce l’inglese, sembra non conosca le strade, guida disastrosamente e ai limiti della legalità: insomma abbiamo non poche difficoltà con lui. Sui 55 anni, parla poco e sorride molto (oltre a sbagliare puntualmente strada e a passare ore al telefono con un fantomatico Zakaria, amico suo che gli suggerisce a quali svincoli uscire, e non ci azzecca mai).

Ha quell’espressione come ti stesse prendendo in giro: in più si trova ad incontrare quotidianamente israeliani, con i quali sfodera un cortese distacco. Volente o nolente, portandoci in giro, deve interagire con quelli che lui vede come alieni usurpatori. Pranzando e cenando con noi e con loro, forse, si rende conto che mangiano come lui, ridono e scherzano e possono essere degli emeriti stronzi come anche delle persone per bene.

Un giorno pranziamo allo stesso tavolo, io e lui, condividendo uova e insalata. Gli chiedo della sua famiglia, e lui mi mostra la foto di suo figlio minore, disabile su una carrozzina, davanti alla Moschea di Al Aqsa.

“E’ così – mi spiega sospirando, con gli occhi lucidi e pieni di amore per quel ragazzino così bello e sfortunato – solo Dio può aiutarci”. Prima di congedarci Mazen mi guarda, poi mi sorride e rivolto a tutti ci dice: “Per il tempo che sono stato con voi, siete stati la mia famiglia”.

Mazen, guidavi come un cane, ma eri una gran bella persona. Di Gerusalemme mi rimane la foto che ti ritrae insieme a tuo figlio, abbracciati sulla Spianata delle Moschee.

Olio e acqua, elementi che scivolano e non si toccano, in una Gerusalemme dalle mille vite, dagli intrecci che si vogliono dimenticare, con muri antichi e nuovi: città ventosa e faticosa, che ognuno racconta come vuole, convinto di averla capita e catalogata. Per me non è stato così.