Nel museo del quotidiano

La strada che porta in Via Nazionale, 130 ad Ozzano Taro di Collecchio, è piena di primavera, già dalla statale. Si entra nella stradina alberata e si incontrano i prati dall’erba bassa e quelli dall’erba alta che nasconde le macchine da lavoro, ruggine e prato, la primavera dei cespugli e dell’ingresso del Museo del quotidiano

Testo e foto di Gabriella Ballarini

Ettore Guatelli è il nome del maestro di campagna, il maestro dell’ovvio di un tempo passato. Lui diceva che non ci si deve fermare mai, la gente continua ad essere importante anche se è cambiata un po’. Un museo dall’estremo ieri all’estremo domani. Così lui lo descrive ad un certo punto nell’audio di apertura al sito del museo. Sono arrivata e non sapevo bene dove stavo andando, ma la cascina era un cumulo di cose già dall’ingresso, un enorme deposito all’aria aperta, e quell’apparente casualità, già mi pareva scrivere un “ordine delle cose”, che non riuscivo a capire da dove venisse.

La porta e le vetrate, il biglietto e un signore sorridente: così è iniziato il mio viaggio nel tempo. Un viaggio di odori, dal legno bruciato alla polvere, ho sentito l’odore della polvere e delle muffe piccole che abitano i ricordi, nella prima sala il freddo umido degli spazi antichi, che se non li scaldi ti rammentano sempre delle tue ossa e del dolore degli anni che si appoggiano sui piedi. Tappi di bottiglia, ruote di legno, ruote di pietra, alberi trasformati in oggetti e tutti a fotografare, per fermare un istante nell’istante passato.

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Respiravo piano per non spettinare la voce di chi parlava e raccontava e ci faceva ridere e gli occhi me li sentivo rossi e avvertivo che qualcosa mi stava per tirare le vesti. Le scale portano al piano di sopra della vecchia cascina-museo, il quarto museo etnografico d’Italia. Si supera la vecchia bicicletta dalle ruote piene di bellica memoria e la porta si apre sui giochi. Giochi di bambini e adulti, segni di poesia delle cose che cambiano colore dopo anni di splendore smaltato. La giostra, l’uomo e la donna al vento, la valigia dei mestieri e gli strumenti musicali, le storie attorno a tutto e dentro ad ogni corpo.

E poi l’immenso della catalogazione degli attrezzi della campagna, la lama e il coltello e che se ne trovo tanti, diceva Ettore, vuol dire che ci saranno più storie che saranno vere e ancora più vere le narrazioni. Ogni stanza riprende, negli oggetti che la abitano, la natura e l’essenza di quella stanza, dove si cucinava ci saranno tutti gli oggetti della cucina, come il paiolo rattoppato.

Che io non ci avevo pensato mai che un oggetto metallico potesse essere rattoppato così tante volte da diventare un ricamo, non ci avevo pensato che gli elmetti dei tedeschi, dopo il 25 aprile del 1945 vennero utilizzati nelle campagne come pale per raccogliere il letame: la seconda vita delle cose, a volte, vendica la prima, a volte la deride, altre la guarda con quella sensazione di “liberazione”.

E i vestitini delle scimmiette degli spettacoli di piazza, con i loro carretti e i vestiti rammendati così tante volte che si reggono solo sulle proprie cuciture e la stoffa non la trovi più e ti viene da ricordarti che un abito ricoperto di ferite ricucite, ha comunque ancora possibilità di scaldare e proteggere.

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Le scarpe e le forme delle scarpe, tutta la parete bianca dalle più piccole alle più grandi, senza raccontare le mode del tempo, ma facendo sentire i passi e ricalcando i solchi, che per le mode ci saranno altri musei, con meno polvere e più luce.

Entrare poi nella cameretta di Ettore e sentire che qualcosa ti sta sfuggendo, dopo aver scattato la foto a tutte le valigie, dopo che il cuore è andato su e giù pensando ad ogni gesto dietro ad ogni oggetto prima e dopo che arrivasse qui. Sì, perché Ettore andava in giro per le campagne e comprava per poche lire bagagliai di cose e li portava in cascina e li scaricava nel piazzale e lentamente, notti e notti e giorni ripuliva ogni oggetto e lo posizionava e poi lo spostava e poi lo rimetteva al muro o anche al soffitto. Questo è uno dei pochi musei al mondo dove gli oggetti abitano anche i soffitti, come quello dei cestini, ad esempio. Ma dicevano che lui era pazzo, che ormai non era più un maestro ma un robivecchi.

La cameretta di Ettore. C’è una coperta arancione e un lenzuolo che si intravede, c’è un telefono, un mobile dai cassetti di legno e poco altro, sì, c’è la stufa dove si scaldava per tutto il giorno gli anni prima di morire e sceglieva i legni più piccoli perché non bruciassero, ma diventassero corpo delle sue piccole sculture. Trasformare.
Qualcosa mi sfugge, ma poi vado nella sala dei vasi, delle scatole di latta e la narrazione cambia, dopo le pareti che raccontano, qui trovo le pareti che contengono, che si contendono il primato della moltitudine. Inchiodare al muro ad un certo punto sembrava non bastare, bisognava contenere, troppe storie da dire tutte prima di morire, nel 2000, quando ci fu il suo funerale e un’orchestrina suonava e la gente veniva a salutare un pezzetto di memoria che partiva per un viaggio senza ritorno.

Questo signore era Ettore Guatelli:

Sono uscita dal museo e ho camminato per prendere un po’ di distanza. Ho guardato il casale da duecento metri, facendomi scaldare dal sole, ho scattato una foto e poi ho scritto la mia storia della giostrina azzurra dove la mia mamma e il mio papà si sono conosciuti, innamorati e poi sono arrivata io.
L’umanità è in tutte le cose, parla solo a chi vuole ascoltare.