Baidu e il caso dello studente morto per cancro

Wei Zexi, 21 anni, è morto dopo avere comprato una cura alternativa per il cancro trovata nei risultati del più noto motore di ricerca cinese. Ora il governo di Pechino lancia un’inchiesta in grande stile, perché il caso tocca molti nervi scoperti della Cina: si va dall’inadeguatezza del sistema sanitario al controllo del cyberspazio

di Gabriele Battaglia, da Pechino
tratto da China Files

Il governo cinese ha istituito addirittura una squadra di ispettori per indagare sul «Google cinese», cioè Baidu, accusato di diffondere informazioni su cure mediche fuorvianti dalla famiglia di un malato di cancro, che nel frattempo è morto. Wei Zexi, studente informatico di 21 anni, è deceduto il mese scorso per una rara forma di tumore dopo aver tentato inutilmente cure tradizionali – chemioterapia e radioterapia – e aver quindi cercato una terapia alternativa sul motore di ricerca.
Su Baidu, aveva trovato in cima ai risultati di ricerca la soluzione offerta da un ospedale di Pechino gestito dalla Polizia paramilitare.

La pubblicità offriva un trattamento basato sulla stimolazione delle difese immunitarie, noto con la sigla DC-CIK – abbreviazione per cellule dendritiche e cellule killer indotte da citochine – scoperto negli Stati Uniti e presentato come la tecnologia più avanzata per sconfiggere i tumori. Veniva di fatto venduto da contractor privati all’interno dell’ospedale. La cura è costata alla famiglia del ragazzo 200mila yuan – l’equivalente di 27mila euro – e non è servita. Esperti medici dicono oggi che il metodo è ancora sperimentale, non ha passato al momento tutte le verifiche previste dagli standard internazionali e non dovrebbe quindi essere utilizzato come trattamento di routine per curare il cancro.

Ora, la squadra d’indagine sul caso è composta da funzionari di ben tre ministeri: la amministrazione per il Cyberspazio – cioè il dicastero che si occupa di Internet – la commissione per la Salute e la Pianificazione Familiare – cioè il ministero della Salute – e l’amministrazione statale per l’Industria e il Commercio – che è il regolatore della pubblicità online. Il che ci trasmette l’idea di quanto la vicenda sia percepita come importante, sia dal governo cinese sia dall’opinione pubblica. Il caso di Wei Zexi apre infatti il vaso di Pandora di una serie di problemi della Cina, che mai come questa volta si intersecano in maniera esplosiva.

Da un lato c’è l’assistenza sanitaria, non ancora pubblica e universale, quindi esposta alle truffe dei cosiddetti «mercanti della speranza», agenzie private che non solo offrono cure dubbie, ma talvolta organizzano veri e propri viaggi in rinomate cliniche straniere facendosi pagare profumatamente.

Qualche anno fa, ci imbattemmo in uno di questi operatori specializzati, a metà tra turismo e servizi medici, che alla luce del sole spediva le signore della buona borghesia cinese a rifarsi seno e labbra nelle cliniche di lusso sul lago di Ginevra, mentre un po’ in penombra organizzava viaggi della speranza per facoltosi malati terminali in ospedali «miracolosi» del vicino Giappone. «Noi vendiamo un sogno», ci disse il fondatore-amministratore delegato dell’agenzia, ed era sincero. Credeva nella sua missione.

Sempre alla voce servizio sanitario, c’è poi un problema di gestione sostenibile degli ospedali cinesi. Circa un anno fa, il professor Zhang Wei – un ex chirurgo divenuto consulente del governo – ci spiegò che gli istituti pubblici ricevono fondi insufficienti dallo Stato, quindi i loro amministratori devono fare cassa altrimenti.

Oltre a contenere i costi pagando poco e male il personale – tra cui i medici – e a fare profitti sui farmaci venduti all’interno degli ospedali, il professore citò esplicitamente la vendita di vere o presunte «nuove tecnologie» spesso d’importazione. Ed ecco i contractor all’interno delle corsie.

Con il caso Wei Zexi, torna poi sotto i riflettori il tema del controllo del cyberspazio. Un motore di ricerca è responsabile dei contenuti che veicola o è solo una piattaforma neutra? Il problema riguarda anche i nostri Paesi cosiddetti «democratici», figuriamoci la Cina, dove il governo rivendica il diritto/dovere di controllare internet e reprimere i contenuti che ledono la sicurezza del Paese.

Appare paradossale che un motore di ricerca dove è impossibile trovare immagini di Tian’anmen ’89 esponga invece in posizione privilegiata, tra i risultati a pagamento della propria search, una cura per il cancro non ancora sdoganata. Potere del mercato.

Infine si pone il problema delle grandi imprese IT cinesi, così legate a doppio filo con il governo di Pechino. Se da un lato, sono l’avanguardia che dovrebbe trainare tutta la Cina verso un nuovo modello di sviluppo basato su innovazione e prodotti ad alto valore aggiunto, dall’altro inciampano spesso in qualche incidente di percorso.

Tipico è il caso di Alibaba, che da un lato offre con l’e-commerce occasioni di business e di impiego per la forza lavoro espulsa dal manifatturiero e con il credito online l’embrione di un sistema finanziario alternativo a quello di Stato; ma dall’altro, incappa poi nell’incidente dei prodotti fake venduti dai propri negozi online.

Baidu, da parte sua, fa sistema con il governo nel mettere fuori mercato Google in Cina e garantisce così il fatto che la maggior parte dei netizen dell’ex Celeste Impero vedano risultati della ricerca ripuliti dai contenuti mingang (sensibili); ma poi incappa nel caso Wei Zexi, che sembra fatto apposta per suscitare l’ira dei cinesi: con la salute non si scherza.

Sarà forse a causa della delicatezza di questo caso che Jiang Jun, portavoce dell’amministrazione per il Cyberspazio, ha detto che i risultati dell’indagine saranno resi pubblici. Un raro annuncio di trasparenza. Intanto, il titolo di Baidu quotato al Nasdaq ha perso quasi l’8 per cento.