La guerra al tempo dell’urbicidio

Un rapporto dell’Onu documenta gli effetti devastanti dei conflitti contemporanei nei centri abitati e sui civili

di Christian Elia

* foto di Joseph Eid, Homs, Siria, 2016

“I centri urbani sono diventati delle trappole mortali per migliaia di civili. […] Gli ordigni esplosivi nei centri abitati sono diventati il più pericoloso dei killer per i civili”. Questo è solo un passaggio del rapporto che, in occasione del primo World Humanitarian Summit, che inizierà il 23 maggio prossimo a Istanbul, è stato diffuso dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon.

Good morning, Onu, si potrebbe esser tentati di dire. Però sarebbe inutile. Per tante, troppe persone, la realtà delle zone di conflitto è ancora una sorta di narrazione collettiva, che è stata destrutturata ogni giorno negli ultimi trenta anni.

Le guerre, ormai, sono operazioni di polizia internazionale. Si bombarda in Siria e in Iraq per mettere in sicurezza l’aeroporto o lo stadio sotto casa, le vittime civili sono ‘tragici errori’, ‘un male necessario’ o ‘effetti collaterali’. E la geopolitica, poi. Quella torna sempre buona.

Ecco che, come temeva Susan Sontag, l’eccesso di immagini crude (che se non sono crude non te le compra nessuno, e un freelance ormai racconta la guerra a spese sue) ha finito per anestetizzare l’osservatore, sempre più distante emotivamente da quello che accade tanto quanto l’obiettivo è più vicino (con buona pace di Robert Kapa).

Questo documento, dunque, è importante. E segue un appello dell’Onu e di altri attori che operano in teatri bellici di lavorare a una moratoria sull’uso di ordigni esplosivi nei centri abitati. Human Rights Watch, già un anno fa, ha lavorato a documentare la ricaduta sui civili dei conflitti in Iraq, in Siria, in Libia, in Yemen.

Il terrore dal cielo, in realtà, viene da lontano. E ha un epigono italiano. Giulio Douhet, generale casertano, classe 1869, è stato il primo teorico della guerra aerea come futuro dei conflitti. Il suo libro, ancora oggi, è oggetto di culto nella accademie militari di tutto il mondo, Il dominio dell’aria si intitola, e venne pubblicato per la prima volta nel 1921.

Douhet, ancora con l’estenuante guerra di trincea della Prima Guerra mondiale negli occhi, teorizzava che l’aviazione sarebbe stata la grande star delle guerre del Secolo breve. E aveva ragione. Perché ormai lo stallo degli armamenti era tale, che solo un’operazione intensa di distruzione delle retrovie avrebbe garantito la vittoria sul nemico.

Disseminare la società civile avversaria di morti e di disabili, rendere cumuli di macerie le città delle nazioni che si battevano al fronte, era la chiave per il successo. Ed ecco che se le vittime civili nei conflitti, all’inizio del secolo, erano più o meno il 5 per cento, oggi siamo al 90 per cento.

I bombardamenti, oggi che le grandi potenze non si fanno più la guerra tra di loro, sono diventati l’arma chiave. Basta guardare al teatro bellico in Siria, dove i ribelli sono stati a un passo dalla vittoria, fino all’intervento dell’aviazione russa, che ha di fatto capovolto le sorti del conflitto. Allo stesso tempo, però, come dimostrano le migliaia di raid aerei della coalizione internazionale dall’agosto del 2014 a oggi contro l’Isis, fanno strage di civili, senza risolvere il problema.

Ecco che a quel che cade dal cielo, si aggiunge quel che resta per terra, volutamente o meno. Le mine, le cluster-bomb, i mortai, i razzi e tutto il resto. Fino ai devastanti barili bomba che il regime di Assad utilizza contro i suoi stessi cittadini. Il combattimento casa per casa, come dimostrano gli ‘urbicidi’ di Sarajevo e Baghdad, di Sana’a e Aleppo, sono diventati il volto delle guerre contemporanee.

Le città stesse, nell’eterna tensione tra le élite urbane e la campagna, sono diventate un bersaglio da annientare, in particolare quando la loro stessa esistenza è memoria di convivenza e rispetto, perché se per far la guerra ti serve l’odio, non puoi tollerare un racconto differente.

Per le città e per i civili non esiste un reale dopoguerra. Perché la forma degli ‘stateless’, degli stati falliti, per i quali non esiste un negoziato di pace, un trattato, dal quale iniziare una nuova vita, è oggi dominante. Ai civili restano poche opzioni: restare e morire, combattere, scappare. Per finire annegati nel Mediterraneo o impigliati nel filo spinato di qualche nuovo muro nell’Europa o negli Stati Uniti.

Di fronte a tutto questo, l’appello dell’Onu, di Human Rights Watch e di tanti altri a non vendere e non utilizzare certe tipologie di ordigni nei centri abitati può sembrare pura utopia. Anche perché, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sono tra i principali war-maker o tra i principali venditori di armi.

Ma è necessario lo stesso, almeno per contrastare, ogni giorno, con dati reali e con fonti accurate, lo scempio dei civili in giro per il mondo. Per non ritrovarsi ingannati dai venditori di morte, che spacciano la sicurezza per un bene che ha come prezzo la vita di un poveraccio a migliaia di chilometri di distanza.