Discriminate perché donne. E musulmane

La dimensione di genere dell’islamofobia in Italia

di Giulia Dessì

Layla sa che trovare un lavoro in Italia non è semplice, soprattutto se a contatto con il pubblico. Anche se ha tre lauree, è bilingue, ed è italiana. Layla è musulmana e porta il velo. “I clienti si spaventano. Potresti toglierlo?” chiedono i datori di lavoro. Non è un caso isolato.

C’è chi non accetta, come Marwa, che ha lasciato l’agenzia di viaggio dove era impiegata perché il capo ha rifiutato la sua decisione di iniziare a portare l’hijab e chi, come Heba, è costretta a toglierlo durante i turni in hotel perché ha un figlio e non può permettersi di rinunciare a uno stipendio sicuro.

A Intissar, mediatrice culturale di origini marocchine, lavorare con il velo è concesso ma, allo sportello dell’ospedale dove lavora, i pazienti preferiscono rivolgersi alla collega, italiana e senza velo. Fatima, invece, medico specialistico in uno studio privato, è stata ricollocata a fare mansioni d’ufficio.

In Italia, il velo è uno dei principali motivi di discriminazione verso le donne di religione musulmana che lo portano. Ma non è l’unico. Non ci sono solo datori di lavoro razzisti, ma una più ampia disuguaglianza strutturale che colpisce soprattutto chi è socialmente ed economicamente emarginato.

Lo rivela Donne dimenticate: l’impatto dell’islamofobia sulle donne musulmane, il rapporto sull’Italia realizzato dell’ENAR (European Network Against Racism) è stato presentato il 26 maggio a Bruxelles, insieme ad altri otto rapporti nazionali e uno comparativo europeo.

In assenza di dati statistici disaggregati per religione, per poter capire, almeno parzialmente, l’inserimento nel mercato del lavoro delle donne musulmane, il rapporto analizza i dati sulle nazionalità.

Dati Istat mostrano che, tra le straniere residenti in Italia, i livelli occupazionali più bassi si registrano tra chi proviene da Paesi a maggioranza musulmana. Le donne pachistane, fanalino di coda, hanno un tasso occupazionale del 2,2%, seguite dall’8,9% delle egiziane, il 10% delle bangladesi, il 16,4% delle tunisine, e il 21,4% delle marocchine – in forte contrasto non solo con le percentuali nazionali equivalenti maschili, ma anche con le lavoratrici italiane, che raggiungono il 46,5%.

Per spiegare questi dati, che non includono le cittadine italiane di fede musulmana, bisogna tenere in considerazione diversi fattori. La bassa partecipazione lavorativa è dovuta a un complesso insieme di svantaggi e discriminazioni multiple, con chiare differenze dovute a percorsi di vita diversi.

In Italia, le donne musulmane di recente immigrazione condividono generalmente le stesse difficoltà di tutti gli immigrati: la carente conoscenza della lingua italiana, il mancato riconoscimento di qualifiche rilasciate da Paesi esteri, l’assenza di contatti e la scarsa familiarità con le istituzioni, ma soprattutto le difficoltà di doversi inserire in un mercato del lavoro che relega i lavoratori stranieri nei gradini più bassi della scala occupazionale, a prescindere da dai titoli di studio posseduti.

Il processo di migrazione dai Paesi a maggioranza musulmana, inoltre, presenta differenze di genere: se gli uomini entrano principalmente con un visto lavorativo, le donne arrivano più spesso per ricongiungimento familiare. Secondo i dati IDOS relativi agli arrivi in Italia dal Marocco nel 2011, per esempio, i motivi di famiglia incidono per il 79,8% tra le donne e per il 35,1% tra gli uomini, mentre i permessi per lavoro incidono per il 59,5% tra gli uomini e per il 15,6% tra le donne.

L’alta disparità di genere in Italia gioca un ruolo altrettanto importante. “L’uomo può fare orari che la donna non vuole e non può fare. La donna ha sempre la famiglia. Non ci sono abbastanza aiuti da parte del governo. Tutte le donne sono uguali su questo livello,” spiega Souheir Katkhouda, fondatrice dell’ADMI (Associazione Donne Musulmane d’Italia).

Le donne immigrate, inoltre, non possono contare su sostegni familiari. “Seguire quattro o cinque figli non è una cosa facile,” continua Souheir. “Le nostre amiche italiane, con due soli bambini, vengono aiutate da babysitter, suocere e madri. Una donna che viene qui e si trova, da sola, con una famiglia di medio numero, ha sempre un peso che si aggiunge a tutte le altre difficoltà”.

Ma la condizione di chi si è trasferita da poco tempo è diversa da chi, in Italia, ci vive da decenni o ci è nata. Se le donne musulmane straniere, con le dovute eccezioni, sembrano essere escluse dal mondo del lavoro prima ancora di provare a entrarci, il problema della discriminazione diventa più evidente tra le loro figlie, le cosiddette “seconde generazioni”.

“Se hai un nome arabeggiante, o se porti il velo, diventi automaticamente straniera e quindi, secondo la logica comune, devi avere meno diritti perché sei qua da poco tempo, rispetto a chi è qua da generazioni,” spiega Soha, di madre italiana e padre palestinese.

Eppure, specialmente quando i datori di lavoro non forniscono spiegazioni, è difficile stabilire se la candidatura non sia andata a buon fine per una discriminazione su base religiosa, etnica, di genere, età, o classe sociale. In molti casi è l’intersezione di uno o più pregiudizi a causare la discriminazione.

“A esporre la donna straniera musulmana a forme di discriminazione e razzismo, non è la religione di per sé, non è la condizione di donna di per sé, né quella di straniera e immigrata di per sé,” spiega Ginevra Demaio del Centro Studi e Ricerche IDOS, “ma il fatto di riassumere insieme, nel proprio corpo, comportamento, abbigliamento, stile di vita, ruolo in famiglia e fuori, tutte queste condizioni”.

In Italia, la tutela giuridica dalla discriminazione religiosa sul lavoro esiste, ma raramente si denuncia. Raramente, infatti, si hanno prove scritte. Caso unico nel nostro Paese, Sara Mahmoud, giovane italiana di origine egiziana, ai primi di maggio ha vinto la causa contro un’agenzia che, per un lavoro di volantinaggio a una fiera di scarpe di Milano, l’aveva esclusa dalle selezioni di assunzione perché si era rifiutata di togliere l’hijab.

La corte d’appello di Milano ha dichiarato discriminatorio il comportamento dell’agenzia. Se un requisito coinvolge il fattore religioso può essere inserito dell’azienda come condizione di assunzione solo quando sia essenziale alla prestazione lavorativa e il sacrificio imposto alla lavoratrice sia proporzionato all’interesse perseguito dall’azienda. Ora c’è un precedente.

PER SAPERNE DI PIU’

La pagina di Enar con i link a tutti i rapporti: http://www.enar-eu.org/Forgotten-Women-the-impact-of-Islamophobia-on-Muslim-women
La situazione in Italia: http://www.enar-eu.org/IMG/pdf/factsheet-italy-final.pdf
Il rapporto completo in inglese: http://www.enar-eu.org/IMG/pdf/forgotten_women_report_italy_-_final.pdf