Iraq. La rivoluzione dei giovani

I movimenti giovanili iracheni che manifestano da mesi contro la corruzione del governo stanno inventando nuove forme di cittadinanza. E in un paese martoriato dalla guerra, investono in dialogo e cultura

di Zahra Ali per Open Democracy*, tratto da Osservatorio Iraq

Il mese scorso sono tornata in Iraq, sia per visitare la mia famiglia che per presentare i risultati della mia tesi di dottorato sull’attivismo politico delle donne irachene ad amici e colleghi a Baghdad. Volevo anche capire di più dell’attivismo dal basso della società civile: la mia visita non avrebbe potuto avere tempismo migliore.

Quando sono arrivata, Baghdad fremeva di sit-in – iniziati il 18 marzo – di fronte alla barriera che circonda la Zona verde, dove si trovano i principali palazzi governativi, le ambasciate straniere e dove risiede la nuova leadership politica.

Tutti parlavano del fatto che Moqtada al-Sadr (leader politico e religioso sciita, fondatore del Movimento Sadrista, ndt) si fosse unito al sit-in, dando una settimana di tempo al governo per sciogliersi e designare nuovi rappresentanti tecnici, scelti per le loro competenze e non per la loro affiliazione a partiti formati su base confessionale.

Tuttavia, la partecipazione di al-Sadr è solo un capitolo recente di una protesta popolare avviata il 31 luglio 2015 (dopo le iniziali proteste a Bassora, il 16 luglio, ndt).

Lanciato da normali cittadini e attivisti politici in piazza Tahrir a Baghdad e in tutto l’Iraq, questo movimento ha espresso l’esasperazione generale degli iracheni davanti alla corruzione e alla mala gestione del governo post-2003 (data dell’inizio dell’occupazione statunitense in Iraq, ndt), ben rappresentante dai continui tagli alla corrente elettrica e dalla totale assenza di servizi pubblici.

Queste proteste si sono rapidamente trasformate in un movimento popolare – supportato anche dalla prominente figura religiosa dell’Ayatollah Al-Sistani – che ha accusato il regime dell’Iraq post-invasione, e ha iniziato a rivendicare riforme radicali.

Ogni venerdì da quel giorno, i manifestanti si sono riuniti nelle principali piazze delle maggiori città irachene – Najaf, Nassirya, Bassora – e hanno cantato gli stessi slogan che risuonavano nella piazza centrale di Baghdad: “Bismil din bagunah al-haramiyah” (“in nome della religione siamo stati derubati dai ladri”) e “Khubz, hurriyah, dawlah medeniyah” (“pane, libertà e stato civile”).

I manifestanti denunciavano la natura settaria, confessionale e corrotta del sistema politico iracheno post-invasione, che ha istituzionalizzato le quote (parlamentari, ndt) etnico-religiose e rafforzato un’elite politica incompetente ed auto-proclamata, afferente principalmente ai gruppi islamisti sciiti conservatori.

Gli ostacoli alla vita ordinaria causati dai sit-in a Baghdad erano tangibili: tutte le strade che conducono all’entrata della Zona Verde erano chiuse. Era impossibile non notare il cambiamento, e si era obbligati a prendere strade senza senso per muoversi da un’area della città all’altra (…).

C’era un senso di eccitazione diffuso e il chiaro sentore che qualcosa fosse sul punto di cambiare. Nelle strade, nei bar, nei ristoranti e tra le diverse abitazioni che ho visitato, tutti seguivano giorno per giorno gli sviluppi della crisi. Le riforme proposte da Moqtada al-Sadr, presentate due settimane prima, erano mostrate ovunque e seguite da tutti.

La sua dichiarazione sull’abolizione delle “quote su base comunitaria” (al-muhasasa al-siyasiya), istituzionalizzate dall’amministrazione occupante statunitense e dalla nuova élite irachena nel 2003, ha fatto presa su molti attori della società civile e sugli attivisti, che sono generalmente molto critici e scettici nei confronti del leader Sadrista.

DIVERSE LETTURE DEGLI SVILUPPI DEL MOVIMENTO DI PROTESTA

Tuttavia, alcuni gruppi indipendenti della società civile e attivisti della sinistra, che hanno continuato a protestare ogni venerdì per non meno di 8 mesi, si sono divisi sulla partecipazione – e in seguito anche sulla centralità assunta – dai Sadristi nel movimento di protesta.

Falah Alwan e Hussam al-Watany sono tra i più scettici riguardo a questo coinvolgimento. Attivisti di lungo corso, li ho incontrati nel loro ufficio della Federazione del Consiglio dei Lavoratori in Iraq, al centro di Baghdad. Entrambi hanno affermato che l’iniziale movimento “laico” è stato in seguito “strumentalizzato” dai Sadristi.

Questa critica, espressa anche su Sawt al-ihtijaj al-jamahiri (“La voce della Protesta Popolare”), un giornale dedicato alle recenti mobilitazioni, è essenzialmente costruita su una lettura marxista e secolare dell’attivismo politico.

Secondo Alwan e al-Watany, qualsiasi riferimento alla religione è una forma di alienazione e un ostacolo all’emancipazione umana. In base a questo principio, i due attivisti considerano qualsiasi partnership con gli islamisti come una potenziale minaccia al movimento, “un terribile errore commesso dalla sinistra, sedotta dal populismo islamista”.

Ciononostante, la maggior parte degli attivisti della società civile che ho incontrato a Baghdad erano molto più moderati.

Henaa Edwar, capo dell’organizzazione Al-Amal e figura di spicco di Shabakat al-nisa’ al-iraqiyat (Iraqi Women Network, IWN) – la piattaforma principale che unisce le organizzazioni e le attiviste indipendenti che si battono per i diritti delle donne – era molto speranzosa riguardo gli sviluppi delle proteste popolari. L’ho incontrata nell’ufficio di Al-Amal ad al-Kerrada, nel centro di Baghdad, un giorno in cui aveva partecipato ad alcuni sit-in con una delegazione dell’IWN.

Nonostante rimanesse critica sul populismo e sul conservatorismo Sadrista, specialmente riguardo le questioni di genere, Edwar ha espresso il suo sostegno alle proteste ed ha mostrato uno sguardo positivo sul coinvolgimento di Al-Sadr stesso.

E’ infatti convinta che la presenza del leader abbia spinto la componente di base e proletaria del movimento Sadrista a scendere in strada e mostrare un senso di appartenenza alla Nazione e di cittadinanza unitario, specialmente in un momento in cui, dopo settimane di mobilitazioni, alcuni manifestanti, stanchi di scendere in piazza ogni venerdì, tendevano a rimanere a casa.

Come Edwar, molte altre attiviste per i diritti di genere che ho incontrato a Baghdad hanno sottolineato l’importanza di unire la lotta per la parità di genere a quelle per l’uguaglianza sociale e di classe.

Le attiviste dell’IWN sono convinte che l’uguaglianza in termini di cittadinanza per gli iracheni di ogni etnia e religione sia un punto di partenza fondamentale per l’ottenimento di diritti per le donne. Sin dal 2003 hanno insistito per proteggere un Codice sullo Statuto Personale uguale per tutti: un testo che è stato fortemente minacciato dalla leadership politica sciita. Per questo, nonostante siano consapevoli delle posizioni conservatrici dei Sadristi sulle questioni di genere, molte attiviste puntano sulle posizioni nazionaliste di questo gruppo, considerate come un valore aggiunto per la battaglia sull’uguaglianza e per superare le divisioni confessionali nel paese.

Saad Salloum, giovane autore e attivista per i diritti delle minoranze etniche e religiose irachene, ha a sua volta assunto questa posizione intermedia: consapevole della necessità di ottenere la parità per i cittadini di ogni religione, gruppo etnico e comunitario, è convinto che questo si incontri con il tema della parità di genere.

Salloum è direttore della rivista culturale Masarat, la cui redazione si trova nel quartiere cristiano di al-Kerrada, proprio a fianco di una bellissima chiesa e scuola elementare cristiana. L’ho incontrato lì, e abbiamo avuto una lunga discussione sulle condizioni delle minoranze in Iraq, soprattutto da quando Daesh ha occupato alcune aree a nord-ovest del paese nel giugno del 2014.

Salloum insiste sull’importanza di unire il movimento per la giustizia sociale con le questioni relative alla parità etnico-religiosa, e lavora a livello di base per promuovere una “cultura della diversità” ed un concetto di cittadinanza “basato sulla piena ed incondizionata uguaglianza”.

A PIAZZA TAHRIR

A piazza Tahrir ho incontrato molti attivisti politici radicali, poeti, scrittori, accademici e attiviste per i diritti delle donne.

Era come se, ogni venerdì, le appassionate discussioni politiche ospitate nelle librerie di via al-Mutanabbi (popolare via di Baghdad famosa per il mercato dei libri, considerata il cuore culturale del paese e il punto di ritrovo per intellettuali, artisti e scrittori, ndt) si fossero trasferite – in forme di canti, striscioni e slogan – nella piazza.

Quando sono arrivata a Tahrir, il pomeriggio del 1° aprile 2016, era presente solo un centinaio di manifestanti, principalmente appartenenti a due gruppi: uno di giovani attivisti indipendenti, ed uno riunito intorno a uno striscione che recitava “Il cambiamento di ministri fuori dalle quote è il primo passo per le riforme radicali”. La mobilitazione quel giorno non era vasta come il giorno il cui il primo ministro, Haidar al-Abadi, annunciò la formazione di un nuovo governo. Le donne, soprattutto le giovani, erano meno presenti dei ragazzi in piazza.

Un altro gruppo, composto prevalentemente da ragazzi, cantava slogan come “Nihayatkum qariba” (“La vostra fine è vicina”), con riferimento al regime imposto dopo l’invasione del 2003.

Tra questi anche Dhurgham Ghanem e Jamal Mahmoud, manifestanti giovani e indipendenti, che hanno detto di voler restare in piazza perché “non soddisfatti dalle riforme limitate”. Hanno espresso entrambi la convinzione che questo movimento abbia acceso la loro consapevolezza politica e costituito un primo passo per l’organizzazione di gruppi giovanili indipendenti focalizzati sulle questioni dell’imperialismo e della giustizia sociale. Sia Ghanem che Mahmoud hanno denunciato di aver subito violenze e arresti da parte della polizia e delle forze di sicurezza.

Altri attivisti con cui ho parlato a Baghdad – come Dhurgham al-Zaidy, fratello del popolare Muntazar, l’uomo che tirò la sua scarpa contro George W. Bush nel settembre 2009 – hanno parlato della brutalità degli uomini della sicurezza statale.

Importante attivista indipendente della società civile, al-Zaidy l’ha affrontata diverse volte dopo aver partecipato alle manifestazioni del venerdì a Baghdad: ricorda come sia stato attaccato improvvisamente da uomini sconosciuti mentre era in un famoso bar del centro cittadino. A suo parere, si tratta di uomini mandati dal governo per indebolire il movimento di protesta e spaventare gli attivisti. Nonostante questo, al-Zaidy continua il suo lavoro dal basso: il fatto di aver scelto di farlo in modo indipendente, slegato da ogni partito, rende lui più vulnerabile e la sua scelta ancora più coraggiosa.

(…)


“MOJA”: L’ATTIVISMO RADICALE TRA I GIOVANI DI NAJAF

Continuando la mia indagine sui gruppi di base indipendenti e giovanili in Iraq, ho viaggiato fino a Najaf, a circa 180 chilometri a sud di Baghdad, per incontrare Yaser Mekki e Muntather Hassan, membri del collettivo“Moja” e studenti.

Quando ho varcato la soglia del loro caffè letterario è stato come entrare in un altro mondo. In contrasto con l’atmosfera tipicamente conservatrice e tradizionalista sciita della città, sono entrata in un luogo in pieno centro colmo di libri e opere di pop-art.

La libreria è gestita da giovani uomini e donne, prevalentemente studenti dell’università locale, che hanno affittato queste due stanze con i loro soldi. Mi hanno dato un caldo benvenuto e abbiamo iniziato a discutere dell’originalità dell’attivismo di “Moja”.

Il loro lavoro è ampio, ma come spiega Mekki di base consiste “nell’educare le persone al pensiero critico e alla libertà di coscienza, spingendoli a leggere il più possibile e il più diversamente possibile, promuovendo una cultura di uguaglianza e libertà sociale, di classe, di genere, etnica e religiosa”.

Il collettivo “Moja” ha partecipato alla campagna nazionale della società civile “Ana iraqi ana agra” (“Sono iracheno e leggo”), che promuove la letteratura e organizza eventi culturali ogni anno distribuendo libri gratuitamente sulla passeggiata Abu Nuwas, sulle rive del Tigri.

Ma “Moja” lavora anche su molti altri livelli, sia culturali che politici. Nonostante sia del tutto indipendente, rifiuta finanziamenti sia locali che esteri, così come di unirsi a qualsiasi partito politico. Gli attivisti sono in prima linea nelle proteste contro la corruzione e la confessionalizzazione a Najaf, e distribuiscono regolarmente libri incartati come regali nelle strade della città ai passanti, incoraggiandoli a leggere.

Gli attivisti di “Moja” hanno organizzato raccolte fondi e aiuti umanitari per le famiglie cristiane e sunnite sfollate, fuggite dalle aree occupate da Daesh nel nord Iraq. In questo contesto, per promuovere il dialogo inter-religioso e i diritti delle minoranze, hanno ancora incoraggiato gli abitanti di Najaf ad unirsi ai loro concittadini cristiani nelle celebrazioni del Natale. Hanno decorato un grande albero, chiamato “shejerah al-salam” (“l’albero della pace”) sulla strada al-Rawan, una delle principali della città santa di Najaf.

Organizzano regolarmente eventi e reading di filosofia, religione, cultura e politica, invitando gli autori dei libri e aprendo la spazio al dibattito e alla discussione pubblica.

In poco tempo il collettivo è riuscito a guadagnare visibilità e popolarità tra gli abitanti di Najaf, e il sostegno di alcune importanti figure religiose. Ma ha anche subito discriminazioni e minacce di morte dalle milizie religiose conservatrici. Hassan e Mekki però sono consapevoli che per le ragazze del gruppo sia ancora più dura: sono più esposte alle minacce e discriminate sia per il genere che per il loro rifiuto a conformarsi.

Questo movimento popolare di protesta è simile a quello che emerse nel 2011, e si concentra in particolare sul senso generale di disperazione e tensione che ha seguito la presa di Mosul da parte di Daesh e la sua occupazione, nell’estate 2014.

In seguito all’appello dell’Ayatollah Al-Sistani in risposta alle minacce di Daesh alla sovranità dell’Iraq, la creazione di al-Hashd al-Sha’bi (le “milizie del popolo” oppure “mobilitazione popolare”, supportate dall’Iran e legate all’ex premier Nouri al-Maliki, ndt) è stata un punto di svolta. Il sostegno a queste milizie è visibile nelle strade di Baghdad, dove si possono vedere striscioni e foto ovunque di giovani uomini iracheni, soldati, poliziotti e combattenti, decorate con versi del Corano. Immagini che ricordano ai cittadini la precarietà della vita in Iraq, dove la morte si insinua sempre nella vita di ogni giorno.

Eppure, attraverso striscioni e slogan, i comuni cittadini, i manifestanti indipendenti e quelli più organizzati, hanno espresso il loro punto di vista sulla situazione politica, andando oltre le divisioni settarie e le differenze identitarie.

Hanno pacificamente – ma non per questo meno energicamente – espresso il legame tra la corruzione, la confessionalizzazione e l’ascesa di Daesh. Come si leggeva su un popolare striscione a piazza Tahrir, “Daesh e la corruzione sono due facce della stessa medaglia”.

In questo clima di militarizzazione, i giovani di piazza Tahrir e i collettivi come “Moja” hanno portato nuova speranza, immaginando nuove forme creative ed inclusive di essere iracheni in un paese traumatizzato da decenni di autoritarismo, imperialismo e occupazione militare, guerre settarie e frammentazione del territorio.

*Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Open Democracy, sezione Arab Awakening, ed è disponibile qui. E’ stato poi ripreso sul portale dell’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative, piattaforma delle principali organizzazioni della società civile irachena che si battono per la democrazia nel loro paese. La traduzione dall’inglese è a cura di Stefano Nanni. La foto pubblicata mostra le manifestazioni all’interno della Zona verde, dove i manifestanti hanno fatto irruzione il 30 aprile 2016.