What’s inside / Carcere minorile Beccaria

Un teatro all’interno di un carcere minorile. Si aprono i cancelli, si alza il sipario. Attori, musicisti e ballerini sono i giovani detenuti del Beccaria di Milano. Per una sera il mondo esterno li va a trovare e loro vivono il mondo esterno da protagonisti. Al loro fianco due “capitani coraggiosi”

di Laura Filios e Elisa Giacalone – I cani da reporter

Quante volte capita di trovarsi di fronte a un muro o a una siepe e di intravedere al di là di questi un “bello” che stuzzica la curiosità? Palazzi anonimi che ospitano associazioni che rendono migliore la città? Edifici abbandonati che nascondono storie che neanche un giallista riuscirebbe a immaginare? Di questo e molto altro ancora vuole parlare “What’s inside”. Perché Milano pullula di “fenicotteri”, proprio come quelli nascosti tra le foglie del giardino di Villa Invernizzi, dietro porta Venezia.

A guardarlo da lontano non sembra molto diverso da uno di quei palazzoni di periferia, se non fosse per il muro di cinta che lo circonda, di un grigio che toglie ogni fantasia. Una volta oltrepassato il cancello di via dei Calchi Taeggi 20 è tutto un rumore metallico di porte che si aprono e si chiudono, chiavi che tintinnano, qualche sirena. E la voce di una madre, carica di borse, che chiede di incontrare il figlio che non vede da più di un anno. Un anno: 365 giorni sono tanti per una persona libera, tantissimi per un adulto dietro le sbarre. Un tempo incalcolabile per un adolescente rinchiuso dentro quattro mura.

Per alleggerire la pesantezza delle ore in uno spazio sempre uguale a se stesso, all’interno del carcere minorile Beccaria i ragazzi sono coinvolti in diverse attività, oltre a quella strettamente scolastica. Ci sono la panetteria “Buoni dentro”, i laboratori di falegnameria, di cucina, di giardinaggio. E altri ancora, tutti mirati a insegnare una professione utile una volta usciti.

Quello del musicista non si può certo definire un mestiere. Dentro quattro mura, però, la musica è forse una delle poche cose che può aiutare ad oltrepassare il grigio muro di cinta, anche se solo mentalmente. Il laboratorio di musica esiste da almeno 20 anni. In questo lungo lasso di tempo, per varie vicissitudini, le attività hanno subito degli alti e bassi. Ma grazie alla caparbietà di persone appassionate come Gianluca Messina, dell’associazione Suoni Sonori, e Fabrizio Bruno si può dire che, al di là delle difficoltà logistiche e burocratiche, dentro al Beccaria si fa musica e (si) fa bene.

Quando sei anni fa Fabrizio è entrato per la prima volta nel carcere, era un “semplice” tirocinante della Biccocca. Non suonava nessuno strumento, a differenza di Gianluca, che lì ci lavorava già dal 2000 insieme al collega Giuseppe Vaciago. Una passione però ce l’aveva e così ha deciso di metterla a frutto proponendo a Silvana Vaccaro dell’Enaip – tra gli enti finanziatori delle attività all’interno dell’istituto – e a Olimpia Monda, l’attuale direttrice, all’epoca vicedirettrice, di organizzare un laboratorio di Hip Hop e Rap.

All’inizio non sono mancate le perplessità, anche tra i ragazzi stessi. Per loro la “musica del carcere” era quella struggente e straziante dei neomelodici napoletani come Gianni Celeste, Rosaria Miraggio e Maria Nazionale.

L’Hip Hop, invece, è schietto e si basa sul “gioca con quello che hai”, principio che ben si presta alla vita carceraria. Così ha fatto Fabrizio. Ha cercato di insegnare a ciascun membro del gruppo “dell’ora di musica” a tirare fuori il meglio di sé, chi le parole, chi la melodia. In questo modo il laboratorio ha smesso di essere solo un luogo dove si imparava qualcosa, per diventare anche un momento dove si raccontava qualcosa. La propria esperienza, le paure, i sogni di una vita, una volta “fuori”.

Fabrizio dice che ci sono voluti sei anni, sia ai ragazzi che agli educatori, per capire come far funzionare il meccanismo. I primi hanno imparato a viverlo come uno spazio “altro” rispetto al luogo di carcerazione, anche perché il laboratorio si trova fisicamente fuori dal padiglione detentivo. E perché durante le attività si mescolano, mentre per il resto della giornata sono sempre divisi in maniera molto rigida.

Gli educatori e i volontari, scendendo dalla cattedra, hanno dovuto imparare a mettersi in gioco a loro volta, ad ascoltare, a tirare fuori piuttosto che inculcare le competenze, facendo tesoro di ciò che avevano a disposizione:

un gruppo composito di giovani, con un bagaglio musicale variegato, differenti vissuti alle spalle, caratteri difficili, il tutto da accordare in un’unica armonia, per tre ore due volte la settimana.

Alla fine si sono accorti del valore “terapeutico” dell’Hip Hop, perché fa parlare di sé, di ciò che si è stati e di ciò che si vuole diventare, facendo dimenticare per un attimo di essere in carcere. L’altra grande intuizione degli educatori è stata quella di capire l’importanza del confronto, per i ragazzi, con la realtà esterna, quella “normale”. A facilitare questo processo, è stata la ristrutturazione del teatro all’interno del carcere. La sala, al momento, è distaccata rispetto alla zona delle celle, ma bisogna comunque registrarsi come pubblico prima di accedervi. L’idea è di aprire, in futuro, un ingresso che consenta a chiunque di entrare, senza la trafila di dover lasciare il documento.

Proprio su questo palco, di fronte a 200 persone, il mese scorso, i ragazzi dei vari laboratori artistici si sono messi in gioco portando in scena “232/L’Hip-Hop oltre le sbarre”. Uno spettacolo coinvolgente, scevro di retorica e cliché, in cui freestyler, ballerini, attori e rapper si sono misurati raccontando la storia dell’Hip Hop e, a margine, anche la vita nei loro quartieri.

Più che un saggio di fine corso, i ragazzi hanno messo in scena momenti di vita vissuta, trasponendoli in arte.

Arte che, per alcuni di loro, è diventata anche una professione. Come nel caso di Joshua Algeri, 20 anni, ex detenuto del carcere Beccaria (dal 2012 al 2014), già padre di una bambina, che ha partecipato al Festival di Cannes 2016 come protagonista del film “Fiore”, del regista Claudio Giovannesi e con Valerio Mastandrea.

Giovannesi era alla ricerca di attori non professionisti, ha conosciuto Joshua al Beccaria (dove il giovane ha continuato a collaborare attraverso i corsi teatrali, anche dopo la scarcerazione), e ha deciso di coinvolgerlo nell’avventura cinematografica. Anche da un passato burrascoso può nascere un “fiore”, questo il senso del film, così come l’amore nato dietro le sbarre tra Joshua e Daphne. Film ambientato in un vero istituto minorile e che dal 1° giugno sarà distribuito in tutta Italia. Sarà interessante vedere un lavoro che custodisce l’esperienza, quella di Joshua, nata da un laboratorio teatrale all’interno del carcere e proseguita con la partecipazione a un festival internazionale.