di Christian Elia
Dopo quindici anni di morte e distruzione il bilancio dell’invasione dell’Afghanistan, iniziata il 7 ottobre 2001, è drammatico. L’estremismo religioso è molto più radicato nel mondo, il terrorismo molto più forte, i teatri della guerra sono ormai endemicamente instabili.
Qualsiasi altra lettura dei fatti, non può trovare che supporti ideologici. Perché oggi più che mai, il prezzo altissimo di vittime civili, ci obbliga alla valutazione delle azioni e delle conseguenze che esse hanno generato.
Al di là di questo, poi, come in un tribunale dell’umanità, ci sono le aggravanti. I futili motivi di alcune circostanze, diventano nella guerra i fini reconditi, ma non troppo. Ecco che la produzione e la vendita dell’oppio afgano prende in questo contesto un ruolo centrale.
Lo sa bene Enrico Piovesana, giornalista che per anni come inviato di PeaceReporter ha raccontato il conflitto afgano. Un dato, per iniziare: oggi, dopo quindici anni di guerra, la produzione di oppio veleggia a gonfie vele.
Nel suo libro Afghanistan 2001 – 2016 – La nuova guerra dell’oppio, Piovesana ricostruisce il meccanismo che si è generato dal conflitto (o per il conflitto?) riguardo all’esplosione del consumo di massa di eroina (figlia dei papaveri da oppio) in Europa, in Nord America e in Asia. Senza dimenticare la stessa società civile afgana, che non aveva decisamente il bisogno di questa ennesima piaga biblica.
A fronte dei reportage in prima persona, Piovesana ricostruisce con cura una fitta bibliografia di interviste e dichiarazioni di personaggi chiave nella vicenda. E se, come ammette lui stesso, in tanti possono dubitare dell’interesse di alcuni media (per esempio quelli russi) ad affliggere gli Usa di continue condanne, come si può non tenere conto delle denunce degli stessi media statunitensi?
Quello che fa riflettere è come un lavoro del genere non trovi spazio nell’editoria mainstream, ma forse la domanda contiene la risposta.
In principio, la pietra angolare sulla quale si basa l’intera ricostruzione, c’è la volontà dei comandi politico – militari Usa di scovare i capi di al-Qaeda e combattere i Talebani. Per fare questo, serviva l’appoggio dei signori della guerra afgani (che dal traffico di oppio traggono grandi ricchezze) e della popolazione civile (che dalla coltura dell’oppio traggono l’unica fonte di sostentamento).
Uno scopo che, almeno agli appassionati di realtpolitik, potrebbe sembrare sufficiente per giustificare il lassaiz faire dei vertici Usa rispetto al traffico di oppio e al coinvolgimento nello stesso dei vertici politici e militari del ‘nuovo’ Afghanistan.
Questo, però, non basta a giustificare come esistano prove solide di come il traffico di eroina comprenda i militari stessi, le aziende appaltatrici, i contractor. E questo accade da tempo, come avvenne negli anni Settanta per il Vietnam e come avvenne alla fine degli anni Novanta in Kosovo.
Un libro che è allo stesso tempo un punto di arrivo e un punto di partenza. Come per la storia del soldato italiano Alessandra Gabrieli, prima ragazza copertina delle forze armate italiane, poi eroinomane, infine dimenticata e con un’inchiesta insabbiata che avrebbe dovuto far luce su quello che accadeva ai militari in missione.
Quindici anni sono un periodo storico serio per trarre bilanci e per elaborare la massa di informazioni prodotte. Questo libro si muove in quel senso, lasciando l’idea che dietro una guerra al terrorismo fallimentare, si nascondano non solo la scelleratezza politica e militare delle classi dirigenti, ma anche ingenti interessi economici, sui quali è tempo di riflettere.