La fine del “Vienna Consensus”

La Sessione Speciale dell’Assemblea Generale dell’ONU riunitasi ad aprile per affrontare il tema della lotta alla droga è sembrata un’opportunità mancata

di Maria Tavernini

Poteva essere un’occasione per mettere in discussione l’attuale sistema internazionale di controllo sulle droghe, invece si è ridotta a un dispendioso riaffermare i principi cardine delle vecchie convenzioni. A oltre un mese dalla chiusura della Sessione Speciale dell’Assemblea Generale dell’ONU (UNGASS 2016), che si è riunita a New York per valutare i traguardi raggiunti e le attuali sfide nel combattere il problema della droga nel mondo, si possono tirare le somme di un summit che lascia la sensazione di opportunità mancata.

Quando quattro anni fa i rappresentanti di Messico, Colombia e Guatemala hanno chiesto che si riunisse una sessione speciale dell’ONU per fare il punto sulle leggi in materia di narcotici (in anticipo rispetto a quella prevista nel 2019), il Segretario Generale Ban Ki-Moon aveva promesso un dibattito aperto e ad ampio spettro, che prendesse in considerazione diversi approcci e possibili alternative. Afflitti da decenni di fallimentari tentativi di arginare i flussi di droga e la criminalità, i paesi dell’America Latina hanno pagato il prezzo più alto in questa guerra in termini di vite umane, violenza e sicurezza.

La sessione speciale di New York che si è riunita lo scorso aprile è stata quasi una formalità. Gran parte dei negoziati si era chiusa nei dieci intensi giorni di lavori preparatori a Vienna, quartier generale delle organizzazioni cardine del regime anti-droga: l’UNODC, l’ufficio dell’ONU che si occupa di lotta a droga e crimine, la Commissione sui Narcotici (CND) e l’International Narcotics Control Bureau (INCB), noti per le loro posizioni conservatrici in materia.

Jamie Bridge, policy manager dell’International Drug Policy Consortium (IDPC) – un consorzio di 143 Ong attive in materia di droga -, è fra quanti denunciano  che i negoziati per il documento finale sono stati condotti a porte chiuse, in meeting informali ad alta tensione diplomatica tra i rappresentanti dei paesi membri. Il tutto, orchestrato dall’UNGASS Board, un organo ad hoc che ha messo in piedi un processo confusionario, escludendo deliberatamente le diverse realtà e istanze della società civile.

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Il clima che ha dominato i negoziati su contenuti e termini del documento finale è il riflesso delle sempre più profonde divisioni politiche tra gli stati membri in materia di drug policy. Senza contare che sono circa 70 i paesi che non hanno rappresentanza all’UNODC e ai quali non è stata data voce. I contributi di organizzazioni regionali, accademie, Ong e rappresentanti della società civile sono stati in pratica ignorati e il testo finale è rimasto ottusamente ancorato all’utopistico obiettivo di creare una società “libera dalla droga”.

Anche organizzazioni della famiglia ONU, come l’UN Development Programme (UNDP), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e l’Alto Commissariato per i Diritti Umani (OHCHR) si sono schierate in favore di politiche incentrate su diritti umani e riduzione del danno. Una dissonanza che getta ancora più dubbi sulla coerenza dell’intero sistema ONU, della cui obsolescenza si è discusso quest’anno, nel suo settantesimo anniversario.

Circa 200 organizzazioni della società civile hanno presentato una dichiarazione nella quale si sono dette preoccupate per gli esiti della sessione e i contenuti del testo. In particolare, hanno accusato l’UNGASS di non aver riconosciuto il fallimento del regime anti-droga e i danni causati dall’attuale approccio: corruzione, violenza, omicidi, stigmatizzazione dei tossicodipendenti, violazione sistematica dei diritti umani e milioni di dollari spesi in politiche che, palesemente, non funzionano.

Per oltre mezzo secolo, le leggi anti-droga sono state giustificate da una diffusa unanimità di vedute tra i governi, il cosiddetto “Vienna Consensus”, basato su politiche repressive e punitive che hanno favorito la nascita di un mercato nero (il cui fatturato stimato è di 320 miliardi di dollari annui) nelle mani dei cartelli criminali, come lo stesso UNODC ammette in un rapporto del 2009. Un consenso che ha permesso la creazione di un sistema di controllo internazionale sugli stupefacenti articolato e intransigente.

“Oggi questo consenso si è incrinato e l’UNGASS ne è stato un chiaro esempio”, afferma Tom Blickman, programme coordinator del Transnational Insitute (TNI). Un divario crescente separa gli stati riformisti, che sostengono approcci basati su salute pubblica e diritti umani, da quelli fedeli allo status quo. “L’elemento di svolta è stato il cambio di rotta degli Stati Uniti (finora promotori della tolleranza zero) dove, sotto l’amministrazione Obama, gli stati di Washington e Colorado hanno regolato la vendita di cannabis e scelto approcci basati sulla riduzione del danno”, continua il ricercatore olandese.

Eppure le istituzioni di Vienna restano chiuse nel loro immobilismo. Il testo finale, infatti, ribadisce fedeltà alle tre convenzioni cardine delle politiche di controllo sulla droga, senza critiche o riflessioni, ma soprattutto ignorando i recenti esperimenti di depenalizzazione e regolamentazione della cannabis avvenuti in Uruguay, Portogallo o Svizzera.

“Il Vienna Consensus ha giocato un importante ruolo nell’adozione del documento finale” , sostiene David Dadge, portavoce dell’UNODC, “documento che rafforza gli esistenti fondamenti legali, base dell’azione collettiva contro la droga, ed enfatizza l’importanza di salute e prevenzione nell’approccio al problema droga”.

La Single Convention on Narcotic Drugs del 1961, pietra miliare del regime, è il primo trattato ONU su cannabis, oppio e coca nel quale sono confluiti i precedenti, stipulati sotto l’egida dell’allora Società delle Nazioni. Alla Convenzione Unica, poi emendata nel 1971 per includere le sostanze cosiddette psicotrope (LSD, ecstasy, anfetamine, etc.), è poi seguita la Convenzione del 1988, che ha significato l’internazionalizzazione della dottrina proibizionista americana.

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Sulla scia della war on drugs di nixoniana memoria, la Convenzione contro il Traffico Illecito dell’88 – in pieno boom dello spaccio internazionale -, ha incluso l’obbligo per i firmatari di adottare misure penali per possesso, produzione e traffico illecito (cioè per uso non-medico o scientifico).

Era la fine degli anni 80, la Guerra fredda era quasi al termine e l’Occidente aveva bisogno di un nuovo nemico. Risorse, milizie e propaganda furono così dirottate dal comunismo agli stupefacenti.

Dieci anni più tardi, alla prima UNGASS dedicata agli stupefacenti, nasce lo slogan “Un mondo libero dalla droga: possiamo farlo!”, che auspicava a raggiungere l’obiettivo entro il 2008. Slogan ripreso anche nella Dichiarazione Politica del 2009 e poi, di nuovo, nel documento finale dell’UNGASS 2016. Concetto utopistico e fuorviante che focalizza l’azione sulla droga invece che sugli individui, negoziato in cambio di un riferimento alle politiche di harm reduction nel testo finale, spiegano i critici.

Qualche piccola vittoria è stata quindi raggiunta da quanti speravano in una riforma del sistema. Anche se temi importanti come l’abolizione della pena capitale per reati di droga, o il diritto dei popoli indigeni all’uso tradizionale di piante psicoattive non sono stati portati sul tavolo dei negoziati, l’accesso alle sostanze controllate per uso medico è stata un’importante conquista, insieme alle alternative all’incarcerazione e ai programmi di medicazione assistita inclusi nel testo finale. Novità che sembrano segnare uno spartiacque verso un approccio più pragmatico al problema della droga.