Elia, ma perché si emigrava?

Durante la rassegna Cinema di Ringhiera, Q code Magazine accoglierà i racconti di Gina Bruno. Cronache ordinarie di relazioni straordinarie che accompagneranno ogni proiezione parlando di storie d’amicizia tra famiglie, donne, comunità.

Venerdì 10 Giugno
nel cortile di Giuseppe in via Legnone 79
FILM ITALIANO
Incantesimo Napoletano
di Paolo Genovese e Luca Miniero – 2001

di Gina Bruno

Conobbi la signora Elia sette anni fa, tra gli andirivieni del trasloco, tra scatoloni e mobili da montare. Io mi trasferivo nel palazzo e lei ci abitava da quarant’anni. Ero felice che fosse mia vicina di casa, non conoscevo ancora nessuno nel palazzo.

Una volta decisi di fare la pasta fatta in casa ma al momento di tirare la sfoglia fu un vero disastro, non so perché non veniva, mi si attaccava, il mio matterello correva qua e là, il risultato era un ammasso di pasta dall’aspetto goffo e informe. Corsi al piano di sopra a chiamare Elia la quale senza dire una parola tirò giù il suo matterello e scende da me al primo piano. Con fare sicuro spolverò la farina sul tavolo e con quattro mosse precise, tirò la sfoglia alla perfezione. Con la pasta arrotolata intorno al matterello mi disse di stendere una grande tovaglia sul letto di modo che lei potesse sistemarci la pasta sopra.

Quando andò via andai a riprendere una per una le sfoglie e le tagliai con la mia rotella tagliapasta e feci delle bellissime fettuccine. Mentre le tagliavo pensavo ad Elia, a quel gesto di sistemare la pasta sul letto. Mi vennero in mente quei racconti sui meridionali immigrati al nord, mi venne in mente il film di Luchino Visconti “Rocco e i suoi fratelli”. Mi chiesi com’era stata la sua vita quando arrivò a Milano, come la accolsero? Dove aveva lavorato? Come si sentiva lei?

Elia, originaria di Possidente, una frazione di Avigliano in provincia di Potenza, arrivò nel quartiere 42 anni fa e nel nostro palazzo c’erano soprattutto milanesi. Le ho chiesto perché si emigrava ed è nata una bellissima chiacchierata, un racconto intimo che è anche lo sguardo su un’epoca che forse troppo frettolosamente abbiamo dimenticato. Io la rendo pubblica, chi sa che non nasca dentro di noi una riflessione sul nostro presente, a me per lo meno, così è capitato.

Elia, ma perché si emigrava?

C’era la fame, la fame nera. La gente lavorava nella terra dalla mattina alla sera, ti rimaneva solo un boccone di pane e un paio di scarpe non te lo potevi comprare. Ti potevi fare un vestito all’anno, non avevi nemmeno le mutande.

Pensa che le mie figlie mi prendevano in giro, una volta sono andata all’ospedale ed hanno guardato nei cassetti per portarmi le cose, erano pieni di mutande. Io mi facevo la scorta perché da piccola non le avevo. C’era una miseria che non ti puoi immaginare. Un litro d’olio… ma chi te lo dava? Condivamo tutto con il grasso del maiale. Lavoravamo come gli asini ma non progredivamo. Per cui chi poteva andava via, perché il lavoro qui c’era.

Com’era l’atmosfera nel quartiere quando sei arrivata, per esempio i negozianti come ti trattavano?
I negozi erano per lo più gestiti da milanesi, ma i negozianti erano cordiali, in fondo si entrava per comprare. Per lo più venivamo insultati sul posto di lavoro, ogni tanto si sentivano delle voci: ma tornatevene al vostro paese, venite qua con le borse di plastica. Io non rispondevo, facevo il mio lavoro e andavo avanti. Anche se non capivo, perché il lavoro c’era, solo che aprivo bocca trovavo lavoro in qualche casa a fare i mestieri, non so perché ci dicevano così.

E com’erano i tuoi vicini di casa con te?
Ma come ti devo dire… erano scontrosi e se potevano, evitavano di salutare. Ti racconto un episodio: le mie figlie giocavano con un amichetto del cortile, figlio di milanesi ed era sempre a casa nostra perché sua madre andava in fabbrica e faceva i turni. Questo bambino spesso mangiava da noi. Non mi hanno mai ringraziata. Una volta dovevo fare le fettine panate e mi mancavano le uova, il bambino disse: le vado a prendere a casa che la zia le ha portate dalla cascina. La mamma non gliele diede, gli fece dire che non ne aveva, ma non era vero. Il bambino ci rimase male, lui si sentiva in obbligo perché era sempre da noi. Non mi hanno mai portato nemmeno una scatola di biscotti per ringraziare.

Dove hai lavorato?
I primi mesi che arrivai nel quartiere lavoravo da una signora e le tenevo la bambina, ma dovevo fare tutto in casa, lavare, stirare, cucinare, spolverare e occuparmi della bambina. La mattina quando arrivavo mi faceva spolverare e la sera, prima di andare via, dovevo spolverare di nuovo dove avevo già passato e così tutti i santi giorni.
Poi trovai lavoro in una conceria, sono rimasta lì per quindici anni. Si chiamava Pacchetti e stava in piazza Maciacchini. Qui lavoravano soprattutto meridionali, dalla Sicilia, Puglia, Calabria.
Poi sono andata alla Bianchi, era una fabbrica dove facevano cartoni e scatoloni. Era un lavoro molto pesante, ho resistito solo un anno, le mani mi facevano malissimo, la notte piangevo.

Poi ho lavorato in una fabbrica di televisori, ero alla catena di montaggio, i pezzi passavano e noi li montavamo. I primi tempi erano belli, la catena andava piano, le donne con le sedie stavano vicino la catena e aspettavano che i pezzi arrivassero.

Poi dopo qualche anno la fabbrica andò in crisi e io feci due anni di cassa integrazione. Ma io lavoravo lo stesso, facevo le pulizie nelle case, andavo in tre o quattro case. La cassa integrazione me la mettevo da parte e con i soldi delle pulizie, mandavo avanti la casa e le figlie. Io ero vedova, dovevo fare tutto da sola. Pulivo anche le scale di questo palazzo, la mattina mi alzavo alle 5 e facevo le scale del condominio, il cortile, cambiavo i sacchi. Con questi soldi, 20.000 lire, mi pagavo l’affitto di casa. Dopo aver fatto le scale me ne andavo in fabbrica. Ero sempre di corsa. Io avevo un fratello che stava in una pensione e aiutavo pure lui, per esempio alla mensa in fabbrica, io mangiavo solo il primo e il secondo lo conservavo e poi lo portavo a lui. Quanta fatica che abbiamo fatto, dovevamo risparmiare per mandare dei soldi ai nostri genitori, al paese. Stavano finendo di costruire la casa colonica, qualche soldo ce lo avevano dato a noi per emigrare, e così noi li aiutavamo. Per mettere da parte 90.000 lire, mamma mia e che fatica. Venivamo pagati anche poco, la mia prima busta paga era di 13.000 lire.
Quando avevo cinquant’anni poi sono andata in pensione, la fabbrica era in crisi e chi voleva andare poteva. Io poi ho continuato a lavorare per altri otto anni, facevo le pulizie e così facendo ho comprato la casa per le mie figlie e per me.

Ma secondo te meridionali e milanesi erano davvero così diversi?

Avevamo abitudini diverse, i milanesi erano gran lavoratori, i meridionali secondo me erano più scansafatiche e se ti mettevi a lavorare vicino a un milanese non ce la facevi a stare dietro.

Eppure noi eravamo abituati al lavoro duro, alla zappa, ma questi erano veloci, non ce la facevi a stargli dietro. C’era una milanese alla catena di montaggio vicino a me che mi faceva sudare, io per starle dietro restavo senza fiato.

Com’è cambiato il quartiere rispetto a quando sei arrivata tu?
Secondo me le persone prima erano più cattive, forse perché c’era più miseria. Oggi è diverso, io non riconosco più le persone per la strada e di milanesi penso che non ce ne siano più.