La strana condizione di Karim Miské

Intervista allo scrittore franco-mauritano Karim Miské

Di Gabriella Grasso

Dopo il bel noir Arab Jazz, nel quale i temi dell’appartenenza e del multiculturalismo erano già presenti, Karim Miské, scrittore e documentarista franco-mauritano, nel saggio/memoir Appartenersi (Fazi, euro 15) affronta il tema dell’identità da una prospettiva profondamente personale. «Strana condizione. La mia da sempre. Non essere incluso in nulla, non essere compreso in alcuna categoria saldamente stabilita. Perpetua oscillazione sul ciglio del baratro. Costanti interrogativi esistenziali. Sarebbe stato meglio o no essere come l’altro, che sa chi è, a quale mondo appartiene? Certezza desiderabile. Certezza detestabile». La “strana condizione” di cui scrive Miské è quella di chi – in una società abituata a classificare, separare, etichettare – non può vantare un’appartenenza univoca e non può occupare un posto preciso. Perché la sua identità è meticcia, quindi non facilmente classificabile. Arabo o francese? Il bambino Karim evita gli specchi perché lo confondono: gli rimandano l’immagine di un piccolo arabo, mentre lui si sente francese come la maggioranza dei suoi compagni di scuola. La sensazione strisciante di essere in qualche modo diverso viene relegata in un angolo dell’anima. Finché un giorno il francesissimo nonno materno, che lo ha sempre molto amato ma che negli ultimi mesi di vita ha perso la lucidità, nel pieno della degenerazione neuronale lo guarda ed esclama: «Oh tu, il bastardo!». Ed ecco che il fantasma occultato nell’angolo salta fuori: eccola, la diversità. Da quel momento in poi, per l’autore sarà un lungo cammino di ricerca personale, che lo porterà infine a scegliere la letteratura come «unico paese abitabile».

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Arab Jazz era un libro con una trama estremamente articolata, complessa. Questo invece è quasi una confessione a ruota libera. Da dove è nata l’esigenza di scrivere un testo così personale ed emotivo?
«Avrei voluto scriverlo da tempo, ma la scelta di farlo ha coinciso con il compimento dei miei cinquant’anni e con la fine di una psicanalisi che mi ha portato a valutare il mio percorso esistenziale in maniera più serena. Non volevo dare l’impressione di lamentarmi della mia vita. Non volevo parlare solo di violenza. Ma volevo reagire a ciò che stava succedendo in Francia all’epoca di Sarkozy e che continua ancora adesso: sentire certi politici parlare di identità francese “tradizionale” ha riattivato dentro di me antiche ferite. Il sottinteso di questa espressione è che se non sei francese “alla maniera tradizionale” varrai sempre meno degli altri, dovrai sempre giustificare la tua presenza e subirai attacchi verbali, anche da parte dei rappresentati politici. Ecco, questo libro è stato anche una reazione alla violenza verbale quotidiana, anche se io non l’ho mai subita. Ho voluto scriverlo in maniera personale perché credo che la mia vicenda esistenziale possa avere un significato anche per altri. Non voglio essere presuntuoso attribuendo alla mia storia un valore superiore: semplicemente penso che possa aiutare a comprendere certe dinamiche e fare da specchio a chi le ha vissute e le vive. E funziona: ogni volta che presento il libro, alla fine le persone che mi si avvicinano non mi parlano di me, ma delle loro vicende personali».

Lei mette in evidenza come gli esseri umani cerchino in tutti i modi – per esempio attraverso l’adesione a un’ideologia politica o a un credo religioso – di sfuggire alla “maledizione di non appartenere”. L’umanità come la descrive lei fa molto pensare all’adolescenza, stagione della vita in cui se non sei conforme a un gruppo ti senti totalmente smarrito, non sai chi sei…  
«In effetti il meccanismo è lo stesso: da questo punto di vista non cresciamo mai. Gli uomini sono animali sociali: all’inizio della loro storia erano divisi in tribù che si combattevano e chi non apparteneva rischiava la vita. Il problema delle società moderne è che sono ancora legate a quel modello arcaico, di cui faticano a liberarsi. Lo vediamo in tutto il mondo, ma soprattutto in Europa. Il nostro continente ha la fortuna di essere cosmopolita: per varie ragioni c’è molta più diversità qui da noi rispetto, per esempio, al mondo musulmano. In altre epoche è stato il contrario, ma oggi è così. Noi abbiamo dei valori comuni: le idee universali, la filosofia dei lumi. Li apprendiamo a scuola, ne siamo formati. Nonostante ciò, subiamo la tentazione della visione tribale. In questi anni da una parte c’è la spinta a chiudersi sull’identità nazionale anche in Paesi, come la Francia, tradizionalmente europeisti. Dall’altra quella a ripiegarsi, all’interno di ciascuna nazione, su un substrato etnico-religioso: essere francesi quindi vorrebbe dire essere bianchi e cristiani. È un’idea restrittiva di identità, eppure abbiamo difficoltà a superarla e a sostituirla con un’identità di destino, che implicherebbe dire: vivo in un Paese (o un gruppo di Paesi come l’Unione Europea), credo in un destino comune e nella possibilità di costruire insieme il futuro sulla base di valori condivisi. Quali? Bisogna individuarli. Secondo me fondare l’Europa sulle sue radici cristiane significa non solo escludere molte persone, ma anche mettere in secondo piano un’altra esperienza che è profondamente europea, certamente non solo francese: quella dei Lumi. Scegliere l’illuminismo piuttosto che il cristianesimo come fondamento consentirebbe di avere un’Europa più inclusiva».

Cambiare visione significherebbe confrontarsi con la diversità e accettarla. Un’operazione che oggi sembra particolarmente complessa.
«Be’, è facile essere universalisti in teoria. Per molte ragioni oggi abbiamo difficoltà a confrontarci con la questione della diversificazione. All’interno dell’Europa ci sono anche molte differenze: per esempio in Italia ottenere la cittadinanza per uno straniero è ancora difficile, mentre in Francia e in Gran Bretagna, ex potenze coloniali, un bambino che nasce sul territorio diventa facilmente cittadino. Crescendo, però, si accorge di non essere come gli altri, bianchi e cristiani. Capisce di essere considerato meno francese o britannico: il che rivela che queste società hanno difficoltà a credere negli stessi principi su cui si fondano, perché c’è qualcosa di arcaico che resiste. Bisogna prendere le distanze dall’arcaismo. Io non so come si possa fare, ma è necessario capire che cos’è questa identità di cui abbiamo tanto bisogno e comprendere che esiste un ricatto identitario dietro il quale si nasconde la possibilità della violenza».

Applicando la visione arcaica basata su divisioni nette è normale che le persone meticce siano guardate con diffidenza. Non sono classificabili in maniera chiara, quindi fanno paura. È così?
«Esattamente. Io sono cresciuto sentendomi l’incarnazione di un problema. Quando ero ragazzino e leggevo i fumetti ambientati nel Far West, mi identificavo sempre nel meticcio indiano, quello che tutti vedevano come un pericoloso, potenziale traditore. Istintivamente io comprendevo la sua posizione. Perché io stesso non potevo sfuggire alla sensazione di essere guardato come il diverso, quello di cui non ci si può fidare».

Lei lega il concetto di identità a quello di violenza. Sostiene che l’appartenenza risponda all’esigenza di gestire la pulsione alla violenza che è insita nell’essere umano. Ci spiega meglio?
«L’appartenenza diventa un pretesto per esercitare la violenza. Dato che per costruire una società c’è bisogno di contenere questa pulsione profondamente umana, si decide che non si può uccidere all’interno del proprio gruppo: ma fuori sì. Diventa quindi lecito colpire l’altro, il diverso. Lo si legge anche nei testi sacri».

Ma non si tratta di un meccanismo consapevole…
«C’è chi sceglie di manipolare – e lo fa molto bene – la tendenza dell’uomo a distruggere e uccidere. Molti di quelli che si fanno manipolare però sono inconsapevoli: sono istintivamente contenti di avere la possibilità di esercitare la violenza con l’autorizzazione del proprio gruppo. Certo non vale per tutti. Anche se questa pulsione è insita nell’uomo, siamo anche esseri socializzati e moltissimi di noi si rifiutano di esercitarla. Quelli che non fanno resistenza, però, sono un numero sufficiente da scatenare guerre e genocidi. Basta vedere le foto dei linciaggi dei neri negli Stati Uniti nel secolo scorso: a metterli in atto erano persone dall’apparenza tranquilla, padri di famiglia che dopo un linciaggio tornavano a casa e facevano un barbecue con gli amici. La violenza fa parte dell’essere umano. Per quanto orribile, è fondamentale che ognuno di noi ne prenda atto e la guardi anche dentro di sé. Nessuno è esente. Come può una società organizzarsi per gestire questa pulsione? Oggi, non potendola eliminare, si sceglie di indirizzarla verso “l’altro”: ma non è una soluzione civile. Di strada dobbiamo compierne ancora molta. La domanda: “Cosa fare della nostra violenza?” non ha risposte semplici, ma porsela è già un inizio».

Per rendere comprensibile la dinamica dell’esercizio della violenza sul diverso, lei racconta un episodio apparentemente innocuo della sua infanzia: la proposta da parte di un suo compagno di quinta elementare di “attaccare” un gruppo di bambine che stava uscendo da una piscina…

«Il presupposto era che noi eravamo maschi e loro femmine, quindi appartenenti a un altro gruppo: questo ci autorizzava a fare ciò che volevamo. Il meccanismo è lo stesso nelle guerre tra Paesi, negli scontri tra maggioranze e minoranze, nelle relazioni tra uomini e donne per l’appunto. In Francia sono molte le donne che subiscono violenza, e già questo già dovrebbe essere sufficiente per interrogarsi sull’educazione delle nuove generazioni, che rischiano di riprodurre all’infinito le stesse dinamiche».

Le ha fatto bene scrivere questo libro?
«Visto che avevo già intrapreso e concluso un percorso di psicanalisi, scriverlo non è stata un’operazione terapeutica, piuttosto di condivisione. Sono contento di aver tracciato un cammino per altri. Quello che fa davvero bene è dire l’indicibile. La scena con cui si apre il libro, quella in cui mio nonno materno mi chiama bastardo, è molto violenta, è una scena di esclusione totale da parte di una persona che amavo e che mi amava, ma che nonostante l’affetto era capace di dire una cosa così terribile: aver potuto scrivere di questa ambivalenza, che è stata costitutiva della mia identità e che fa parte degli esseri umani, è stato molto importante e liberatorio. Mi piacerebbe che chi legge il libro si domandasse: qual è l’episodio orribile di cui io ho bisogno di liberarmi? Se lo ha fatto Miské, posso farlo anch’io».

Il titolo originale del libro è N’appartenir, ovvero “non appartenere”. In italiano è stato tradotto Appartenersi. Si tratta però di due concetti diversi: non appartenere a nessuno e appartenere a se stessi. Ci spiega il nesso tra i due?
«Il libro è un percorso tracciato tra questi due concetti: non appartenere a nessuno per poter – infine – appartenere solamente a se stessi. Non appartenere non significa rifiutare ogni cultura o religione, ma essere consapevoli del carico di violenza che l’appartenenza implica e non farsi catturare dai manipolatori identitari. Significa scegliere, all’interno della propria identità, che cosa accettare e cosa rifiutare. Significa rigettare il detto anglosassone: “Giusto o sbagliato, questo è il mio Paese”. Io penso che ad aver salvato la Francia durante la guerra di Algeria siano stati quelli che alla guerra si opposero rivendicando il loro essere francesi, che non cedettero al ricatto identitario che imponeva che essere francesi implicasse uccidere gli algerini. Infine significa, per usare la formula dello psicanalista Jacques Lacan, essere “soggetti del desiderio”: scegliere che cosa si desidera essere. Il che non vuol dire autorizzarsi a qualsiasi cosa, ma operare le proprie scelte consapevolmente, senza farsi agire da discorsi generali. Che oggi, spesso, sono discorsi di violenza e di morte».