The Kill Team

Un documentario su uno squadrone della morte Usa in Afghanistan che uccideva per diletto
di Christian Elia

Gul Mudin 15 anni, Marach Agha 22 anni, Mullah Allah Dud, 45 anni. Sono tre cittadini afgani, assassinati a sangue freddo in Afghanistan nel 2009 da un plotone dell’esercito Usa, comandato dal caporal maggiore Gibbs.

In tutti e tre i casi, alle vittime è stato asportato un dito come trofeo militare; in tutti e tre i casi è stata posta nelle loro vicinanze un’arma che non avevano e che serviva a giustificare come legittima difesa il loro omicidio.

Questa la storia che racconta il documentario The Kill Team, di Dan Krauss, premiato al Tribeca Film Festival del 2013 e ora disponibile sulla piattaforma Netflix.

La potenza del racconto in prima persona dei protagonisti della vicenda è disarmante. Una famiglia, quella del soldato Winfield, sembra un’isola assediata in un oceano di indifferenza.

Il giovane Winfield, partito volontario per l’Afghanistan, marine come suo padre, inizia a mandare mail disperate a casa quando il suo caposquadra viene sostituito con il veterano Gibbs. Questi, come racconta ai suoi ‘ragazzi’, già nei precedenti turni di servizio in Iraq e Afghanistan, ha affinato una tecnica d’omicidio perfetto.

Ne scegli uno, a caso, tanto sono bestie, son tutti uguali, colpevoli, nemici, subumani. Lo ammazzi, magari usando armi non registrate, che poi lasci accanto al cadavere. Questo basterà a tutti per parlare di legittima difesa. Poi, come plus, gli mozzi un dito, lo fai seccare, e ti ci orni una collana di trofei.

Il rischio di questo documentario, e di tutta l’inchiesta che venne dopo, è pensare che si tratti di un caso isolato. Lo dicono gli stessi elementi intervistati, tra gli undici condannati: tutti sapevano, tutti applaudivano, superiori compresi.

Infatti l’inchiesta non scatta quando il padre di Winfield, angosciato dalle mail del figlio, prova a denunciare ai superiori. La macchina della ‘giustizia’ si muove solo quando un altro soldato, Stoner, viene massacrato di botte da Gibbs e adepti per aver denunciato l’abuso di droghe all’interno dell’unità.

Solo allora, come raccontano i protagonisti, si apre il vaso di Pandora che porta alla condanna di Gibbs (ergastolo) e di altri dieci, compreso il povero Winfield, abbandonato alle minacce di Gibbs, che alla fine lo costringe a prendere parte al terzo omicidio, con tanto di foto finale accanto al cadavere come ricordo di caccia.

Un documentario intenso e unico, che è riuscito a far parlare gli stessi protagonisti, ormai in carcere. Alcuni di loro lo facevano per ‘essere come gli altri’, altri perché ‘cazzo, in fondo son tutti uguali, tutti amici dei Talebani’, altri ancora perché ‘avevano paura di Gibbs’.

Ma le parole che restano scolpite, alla fine, son quelle del soldato Stoner. Che con disarmante franchezza, chiede: “Dal primo giorno di addestramento ci insegnano ad uccidere tutto quello che si para davanti a noi, senza pietà, senza pensare al nemico come un essere umano. Perché ci condannano, quando lo facciamo?”. La risposta a questa domanda è la madre di tutte le guerre.