shirin bashur 5.

Storie di viaggio in Kurdistan

di Linda Dorigo

Nel giardino di Dange Nwe Radio (Nuova Voce) incontro Dlpak e la sua amicizia mi apre le porte dell’Hawraman. Tra queste montagne ci nascondiamo dal calore estivo come i peshmerga durante la rivoluzione.

I versanti sono biondi, bruciati dalla luce di mezzogiorno. Ma la gola dentro cui ci infiliamo è rigogliosa come il paradiso. Intorno a un rivolo d’acqua si concentra la vita di piante ed esseri umani.

Pomodori, cetrioli, fagiolini e fichi pronti per l’autunno. Mamma, papà, fratelli, sorelle, zie, cugini e nipoti preparano la brace e mangiano senza sosta spiedini di carne abbrustoliti dentro a fogli di pane. Si chiacchiera con tè bollente e acqua del ruscello. Tutto sembra avere una propria logica naturale a cui abbandonarsi.

Le donne indossano gli abiti tradizionali e danzano sotto gli alberi mentre una leggera brezza asciuga i volti sudati. Piccoli e grandi si arrampicano sugli alberi di gelsi e a turno si va a pregare su una tavola di pietra appoggiata sotto un grande noce. Questo scenario bucolico è stato territorio di guerra fino a venti anni fa.

Qui si sono combattuti gli eserciti di Iran e Iraq, mentre i partigiani curdi ne hanno fatto una roccaforte durante la rivolta contro il partito Baʿth. Grazie alle montagne dell’Hawraman, la caratteristica lingua locale si è preservata dalle influenze arabe, e sempre qui la comunità religiosa dei Kakai (o Al- e –Aqq) ha trovato protezione dalla furia criminale dell’esercito di Saddam Hussein.

Dopo l’88 la famiglia di Dlpak si è allargata anche ai parenti più lontani. La tragedia ha fatto sì che nessuno venisse lasciato solo. Così non si fanno distinzioni: i bambini, tanti, sono di tutti.

La zia Murad è la più bella, la più giovane, sempre pronta a recuperare un bicchiere pulito o a sbucciare una mela. Mentre sgrana i fagioli racconta di quando aveva 12 anni e quattro fratellini da crescere. “Ho iniziato a piangere. Come avrei potuto sostenere quella situazione? Sono stata tra i primi a scappare da Halabja. I miei genitori hanno avuto il sentore della tragedia, così mi hanno fatta salire su un taxi insieme ai fratelli. Purtroppo l’auto non è mai tornata indietro a prenderli perché sono iniziati i bombardamenti e sono morti tutti”.

Per due mesi Murad e i fratelli hanno trovato rifugio nei campi profughi in Iran, ignari di quello che era accaduto. Lo zio li ha trovati raccontando loro ogni cosa. I fratelli erano tutto quello che le rimaneva. “Mia madre era morta e io le avevo promesso che mi sarei occupata di loro. Ero solo una ragazza. Ho rinunciato a tutto, ma l’ho desiderato dal profondo del mio cuore”. Murad ha allevato i fratelli lavorando come bracciante e cucendo scarpe tradizionali fino al 2010, quando anche l’ultimo fratello è diventato medico. “Ora che sono tutti laureati posso finalmente riprendere a studiare”.