3000 Nights

Il film della regista Mai Al-Masri 3000 Nights racconta della vita delle detenute palestinesi nel carcere israeliano di Ramla tra gli anni 70 e 80. Una metafora di quella prigione a cielo aperto che è la Palestina

Di Clara Capelli

Palestina, fine anni Settanta. Layal Asfour è una giovane e bella insegnante palestinese, si è da poco sposata con Farid e si prepara a trasferirsi con lui in Canada per costruirsi una nuova vita lontana dalle oppressioni quotidiane. Poi, all’improvviso, tutto cambia.

Layal dà un passaggio a un ragazzo sospettato di un attentato a un checkpoint e si ritrova senza spiegazioni nel carcere israeliano di Ramla. Potrebbe salvarsi dichiarando di essere stata minacciata dal ragazzo: accusarlo, mentire per salvare la propria vita e il proprio futuro. La ragazza, così distante dalla politica e dalla resistenza, decide di non farlo e viene condannata a 8 anni di detenzione.

Comincia così 3000 Nights (3000 Layla), il film della regista Mai Al-Masri sulle condizioni di incarcerazione e detenzione dei palestinesi.

La protagonista (il cui nome evoca non a caso la notte, mentre il cognome, “uccello”, è un richiamo alla perdita di libertà nella gabbia di Ramla) finisce per dividere la cella con altre donne palestinesi: Oum Ali, una contadina i cui figli, membri della resistenza, si trovano nella sezione maschile dello stesso carcere; le inseparabili Fidaa e Jamila, studentesse dal carattere ribelle; Rihan, che sogna la libertà per poter riabbracciare i suoi bambini; la combattente Sanaa, così indurita dalla lotta per la causa da tenere lontano ogni affetto per non rendersi vulnerabile.

Tra tante incomprensioni e difficoltà, questo gruppo di donne si riunisce intorno al piccolo Nour (“luce”), il figlio che Layal, scopertasi incinta all’inizio della sua detenzione, decide coraggiosamente di avere nonostante tutti, dal marito alla temibile direttrice del carcere Ruti, le dicano di abortire. Ma oltre a Nour, a unirle sarà anche la lotta contro le quotidiane ingiustizie cui sono sottoposte in prigione e, soprattutto, la protesta contro il massacro di Sabra e Shatila del 1982.

Ramla è la metafora di quella prigione a cielo aperto che è la Palestina. Una prigione dove impera l’arbitrio, perché anche chi non si immischia nella politica, anche chi rispetta tutte le regole, può essere accusato di qualcosa e perdere tutto. Una prigione dove sono le palestinesi a svolgere le mansioni più umili e umilianti (come cucire le uniformi dei soldati israeliani), risparmiate invece alle detenute israeliane.

Una prigione dove si è costantemente posti di fronte alla scelta tra la fedeltà a un ideale di giustizia da una parte e affetti e voglia di una vita “normale” dall’altra, una scelta per cui si può arrivare a far precipitare nell’abisso i propri compagni per potersi salvare.

3000 Nights è un film da vedere per la complessità umana dei protagonisti, perché nessuno è un eroe a tutto tondo, ognuno porta con sé debolezze e solitudini. È anche un film da mostrare a chi poco conosce la Palestina e la sua storia, provando ancora una volta a raccontare una delle situazioni di più sfacciata ingiustizia del mondo. Cercando ancora una volta di spiegare qual è il prezzo da pagare per resistere e rivendicare la propria dignità.